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La riconduzione dell’ordine giuridico europeo al modello dell’homo oeconomicus, e la conseguente tesi della sua eterogeneità rispetto all’ordine desunto dalla Costituzione italiana, rimanda a una visione primitiva del mercato e riflette una lettura troppo approssimativa dei principi e dell’effettivo funzionamento dell’integrazione europea. Su quelle premesse, ogni ricerca sulla dimensione sociale dell’Unione è già ipotecata. Per coglierne i problemi e per apprezzarne l’evoluzione, occorre uno sguardo meno pregiudicato dal confronto con lo Stato sociale.
Quando, infatti, i Trattati europei e i documenti ufficiali parlano di «politiche sociali», si riferiscono a qualcosa di radicalmente diverso dalle politiche redistributive. Lo dimostra già il principio di pari trattamento retributivo fra uomini e donne, inserito nel Trattato di Roma su richiesta della Francia per il timore che l’apertura del mercato a paesi dove il differenziale retributivo era molto più alto (Olanda e Italia) avrebbe danneggiato le imprese francesi. Lo conferma il titolo XI del Trattato Ce, denominato «Politica sociale, istruzione, formazione professionale e gioventù» (ora titolo X del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, denominato «Politica sociale»), frutto dell’inserimento dell’Accordo sulla politica sociale nel Trattato di Amsterdam, che assume fra gli obiettivi della Comunità e degli Stati membri «la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la loro [dei lavoratori] parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale adeguato e duraturo e la lotta contro l’emarginazione» (art. 136 Trattato Ce, ora art. 151 Tfue).
Una costante delle politiche sociali dell’Unione è di rivolgersi non ai cittadini ma ai lavoratori, al fine di combattere le discriminazioni, e al mercato del lavoro, al fine di accrescere l’occupazione (si veda l’art. 146 Tce, ora art. 162 Tfue, istitutivo del Fondo sociale europeo). Anzi, gli ambiti di intervento sono più circoscritti: non si tratta di discriminazioni in generale, ma di quelle fra uomini e donne, non si tratta di consultazioni con i sindacati sulle politiche in generale ma solo su certe questioni, non si tratta delle implicazioni sulle condizioni di lavoro della maternità in generale ma della gravidanza in particolare.
Per questo verso, la normativa dell’Unione si è sovrapposta a quella degli Stati membri, creando un doppio livello di discipline che è al centro di differenti interpretazioni. La tesi secondo cui le politiche antidiscriminatorie dell’Unione si esaurirebbero nell’evitare distorsioni sul mercato del lavoro (social dumping) parrebbe contraddetta dall’orientamento della Corte di giustizia per cui le disposizioni del Tce sul pari trattamento retributivo non hanno solo quell’obiettivo, ma mirano al progresso sociale in quanto tale. Peraltro anche tale orientamento è suscettibile di più letture. Se per alcuni i giudici comunitari avrebbero riequilibrato le ragioni dell’economia con quelle sociali, altri preferiscono notare che essi non si sono mai pronunciati sui valori insiti nelle politiche sociali degli Stati membri confliggenti con il diritto comunitario.
La disputa presuppone una distinzione irriducibile fra eguaglianza redistributiva ed eguaglianza di status, che corrisponde a modelli sociali radicati in diverse aree europee e impedisce anche per questo di cogliere la possibile complementarità fra le due accezioni. Si è osservato che la correzione delle disparità da status richiedono anche misure redistributive, così come i rimedi alle sperequazioni economiche comportano in parte mutamenti nelle gerarchie di riconoscimento. Diversi gruppi sociali, compresa l’intera componente femminile, percepiscono ad esempio il trattamento retributivo non solo sotto il profilo economico, ma anche come riconoscimento delle qualità del loro contributo professionale. Da cui l’esigenza di ripensare profondamente la dicotomia fra le suddette accezioni di eguaglianza, puntando sulla comprensiva nozione di inclusione sociale.
(da C. Pinelli et al., a cura di, La costituzione economica: Italia, Europa, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 33-35)*
Riferimenti Bibliografici
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