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Fare appello alla responsabilità, sia pure arricchita dalla dimensione concreta e attiva della cura, non è, a mio avviso, sufficiente a rendere pienamente ragione dell’idea di cura del mondo. Se la «responsabilità per» riguarda non il rendere conto del passato, ma il farsi carico del futuro, ciò vuol dire anche che non possiamo fare a meno di un’immagine del futuro. Non possiamo cioè non chiederci quali potrebbero e dovrebbero essere gli esiti di una presa in carico delle sorti del mondo; o, in altri termini, quale mondo vogliamo costruire, di fronte alla molteplicità delle opzioni possibili, nel quale ci sia dato di riconoscere, per dirla con Lévinas e Butler, il senso stesso dell’umano. Si tratta in altri termini di mobilitare l’immaginazione non solo nell’accezione andersiana e negativa di prefigurare i futuri scenari della catastrofe, ma anche in quella positiva di ipotizzare e pensare scenari alternativi; così da poter orientare le nostre scelte, qui e ora, nella direzione auspicata. Il che non vuol dire tornare a riproporre un’«immagine del mondo»: cioè un’immagine monistica, teleologica e vincolante che l’età globale ha reso definitivamente obsoleta. Vuol dire però non esimersi dal compito di pensare una forma del mondo che ci appaia più convincente e adeguata non solo a garantire la sopravvivenza dell’umanità e del vivente ma anche a porre le condizioni per una «vita riuscita».
Prendersi cura del mondo vuol dire prima di tutto ricomporre la divaricazione tra individualismo e comunitarismo. Vuol dire rompere la logica identitaria che presiede sia all’ossessione dell’Io sia all’ossessione del Noi, attraverso una correzione di entrambe le patologie, la quale consenta di far fronte al pericolo della «perdita del mondo». La tesi di fondo che ha guidato questo percorso consiste nell’affermare che l’età globale pone le condizioni oggettive per il superamento delle stesse patologie che essa produce, in quanto fornisce la chance di declinare in positivo i due concetti fondamentali che ne riassumono il carattere inedito: vulnerabilità e contaminazione. Analizziamo allora, in primo luogo, la vulnerabilità. Se è vero che questa condizione pertiene fin dalle sue origini all’individuo moderno, è vero anche che la globalizzazione ne produce un’universalizzazione, attraverso la comune esposizione dell’umanità e dell’intero mondo vivente al rischio di autodistruzione. A partire da questa condizione, evidentemente negativa e inquietante, si apre però, per il soggetto, la possibilità di recuperare sia la percezione della propria fragilità rimossa dalla hybris prometeica e dalla vocazione all’illimitatezza, sia la consapevolezza della propria dipendenza, o meglio, interdipendenza, che lo vincola indissolubilmente alle vite e al destino dei propri simili, incluso quello delle generazioni future. La vulnerabilità, negata di fatto da un soggetto che si è a lungo pensato come sovrano e autosufficiente, può diventare il presupposto per la formazione di un soggetto in relazione, incline a prendersi cura dell’altro e a farsi carico responsabilmente del mondo in quanto memore della fragilità che caratterizza l’umano in quanto tale. Si tratta in altri termini di prendere sul serio l’ambivalenza della globalizzazione e di convertire in risorsa ciò che in prima istanza suscita paura, insicurezza, autodifesa; come, appunto, la percezione della propria vulnerabilità.
(da E. Pulcini, La cura del mondo, Torino, Bollati Boringhieri, 2009, pp. 263-264)*
Riferimenti Bibliografici
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