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Non di revival, ma di una sorta di continuum, più o meno latente o evidente, si deve parlare a proposito dell’attrazione esercitata dai creatori di moda dell’Oriente. Il richiamo all’Oriente, un Oriente più sognato che conosciuto, più mitizzato che compreso, è stato infatti ricorrente nella moda. Era almeno dal tempo di Marco Polo e della sua relazione di viaggio in Oriente che si favoleggiava, a Venezia come a Genova, di uno straordinario e «diverso» modo di vestire degli orientali. Va detto che anche prima di Marco Polo l’attenzione per l’abito era uno degli elementi su cui veniva a fondarsi la relazione con la diversità. Pensiamo a Tacito, che nella sua opera Germania, un testo storico prezioso e originale dal punto di vista etnologico, ha descritto l’abbigliamento tipico dei germani. Ne parla come di un abito comune formato da un mantello corto fissato con una fibula o, se questa mancava, da una spina. Nelle sue descrizioni cogliamo tratti di evidente ammirazione per la scelta ugualitaria ma anche di ripulsa per quanto rappresentava una certa sauvagerie. Si trattava di popolazioni che indossavano pelli di fiere, cosa che né i romani né gli uomini del Medioevo hanno mai fatto, a eccezione dei pastori. In Occidente, chi voleva la pelliccia per ripararsi dal freddo la portava come fodera appena visibile e la ragione di ciò era la volontà di mantenere chiare ed evidenti le distanze, o forse sarebbe meglio dire la gerarchia, fra gli uomini e gli animali. Per secoli, in pratica fino al XIX, la pelliccia, usatissima e ambita, era usata solo all’interno, come attestano le numerose rappresentazioni del manto della Vergine – sotto al quale trovavano riparo singoli cittadini o intere categorie sociali – regolarmente doppiato di pelli di vaio riconoscibili per il caratteristico effetto scaccato.
La descrizione dei costumi di popolazioni che vivevano in Oriente, o comunque lontano dal punto di osservazione, si prestava a confronti e alla misurazione di differenze ma era anche strumento grazie al quale un’inquietante diversità si trasformava in una nuova moda. Fagocitare l’alterità rassicurava e al tempo stesso attraeva. Se l’attenzione all’abito dell’altro è sempre esistita, altrettanto si può dire dell’orientalismo, cioè del gusto e della passione per un Oriente reinterpretato in forme, vestimentarie o architettoniche, liberamente ispirate a un’idea dell’esotico tutta occidentale. In essa confluirono mollezza di forme e lucentezza di tessuti secondo una costruzione culturale che vede nell’Oriente un tutto indistinto e lo associa all’idea della fissità. Il racconto di Marco Polo, partito per l’Oriente nel 1271, ne ha tratteggiato l’immagine come mondo quasi «alla rovescia» dove, quando una donna ha un bambino, il marito si mette a letto per 40 giorni e in cui egli lava il piccolo e lo accudisce. È dello stesso Marco l’idea di un Oriente ricchissimo di sete e di pietre preziose: Zaitun è descritta come città ricca di grosse e belle perle e l’isola di Cipangu, il Giappone, come luogo caratterizzato da una grande quantità d’oro che nessuno andava a prendere, neanche i mercanti. Più tardi, fra Cinque e Seicento il rapporto con un Oriente relativamente vicino, il mondo turco, ha luogo non solo nell’immaginario, ma anche nella realtà suscitando un insieme di attrazione e di repulsione. […] Se le vesti «molli» erano poco apprezzate, era invece giudicata favorevolmente la stabilità nel tempo dei loro capi. L’assenza di struttura dell’abito orientale, vale a dire la sua essenzialità, rappresentava agli occhi degli occidentali quasi un arrendersi al corpo che essi invece intendevano dominare e nascondere per proporne un’immagine idealizzata. Fin dall’inizio l’immaginario occidentale ha visto nell’abbigliamento esotico l’esaltazione di una condizione naturale: una forma incontaminata di semplicità in quanto priva di interventi sartoriali.
(da M.G. Muzzarelli, Breve storia della moda in Italia, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 131-132, 134)*
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