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Prospettando come potenzialmente necessaria una conquista senza limiti, il sogno di Augusto di una pace assoluta era tuttavia irrealizzabile: neppure la sua straripante potenza avrebbe infatti potuto consentire all’urbs di estendere il suo dominio a tutto il mondo abitato, rivelatosi proprio con Augusto ben più ampio di quanto si fosse pensato fino ad allora. L’impero si trovò così ben presto in una situazione di stallo: lungo l’Eufrate, dapprima, dove il vantaggio logistico delle legioni era compensato dalla provvisoria superiorità tattica delle cavallerie partiche; poi lungo il Reno, su cui tornò ad attestarsi il confine che Druso, Tiberio e Lucio Domizio Enobarbo avevano avanzato fino all’Elba. Ad oriente, all’iniziale successo diplomatico di Tiberio era seguito lo smacco costato la vita al giovane Caio Cesare: e l’Armenia era andata momentaneamente perduta. Vittoriosa o sconfitta, Roma dovette tuttavia in entrambi i casi prendere atto che al mondo esisteva un’alternativa al suo potere; e negoziare, per il momento alla pari, con gli Arsacidi su un isolotto dell’Eufrate, che divideva simbolicamente il mondo tra le rispettive sfere d’influenza. Dopo la sconfitta subita nella battaglia di Teutoburgo (9 d.C.) del congiunto Publio Quintilio Varo ad opera di Arminio, che si era posto alla testa dei Germani in rivolta, un Augusto ormai stanco di sangue e provato dalle vicende familiari rinunciò a riprendere l’iniziativa verso l’Elba, arrestando le sue armate lungo i due maggiori fiumi centroeuropei e fissando in modo sostanzialmente definitivo un limite alle conquiste di Roma. Si avviò così un dibattito su destini e prospettive dell’impero i cui echi sono tuttora avvertibili nelle celebri pagine di Tacito, di Frontone e, con orientamento in fondo contrario, di Anneo Floro, che mostra di preferire l’integrazione alla conquista. […] L’urbs medicò dunque il proprio orgoglio proclamandosi soddisfatta di padroneggiare la parte migliore di un mondo abitato che pareva d’altronde – come sulla gemma Augusta – disposto ad incoronarne la teorica superiorità; ma rimase fedele anche in seguito, forse fino al IV secolo avanzato dell’era nostra, alla primitiva dottrina strategica nata dall’imperialismo, secondo cui da un avversario pericoloso non ci si difendeva, ma lo si aggrediva fino a eliminarlo. […]
Pur ridimensionato nelle sue dimensioni più concrete, l’universalismo era, nondimeno, destinato a sopravvivere, come principio fondamentale, ben oltre la fine dell’età romana. Capace di chiamare a far parte di una patria comune prima gli abitanti dell’Italia e poi, via via, tutto il genere umano; capace di fare della penisola, come ha scritto lo storico francese Claude Nicolet, «un’unica città, che intratteneva» con il potere un tempo egemone «lo stesso tipo di rapporti paradossali e straordinari che, due secoli più tardi, Elio Aristide avrebbe sentito esistere tra Roma e tutta la terra abitata», il genio politico dell’urbs aveva infatti creato, «conciliandola sapientemente con l’autonomia locale delle leggi e dei costumi, […] una concezione originale del diritto di cittadinanza, non duplice (perché la civitas romana escludeva qualsiasi altra civitas, quanto meno se quest’ultima era indipendente), ma sdoppiata o, se si vuole, a due livelli». La cittadinanza si rivelò infatti capace di mantenere in vita ogni singolo particolarismo giuridico, religioso o culturale presente nell’ambito dell’impero; e di fare germogliare i fermenti ideali necessari alla realizzazione «di quella cosmopoli con cui l’impero stesso, rivale della città di Dio, sarebbe giunto quasi a identificarsi». La civitas conteneva anche, mutuata dalla tradizione orientale, quell’aspirazione esplicita all’ecumenismo che si sarebbe poi innestata direttamente sulla successiva, millenaria eredità cristiana.
(da G. Brizzi, Roma. Potere e identità dalle origini alla nascita dell’impero cristiano, Bologna, Pàtron, 2012, pp. 219-220)*
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