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I riformatori radicali – tra i quali Carlostadio, Thomas Müntzer, Michele Serveto, Menno Simons, Fausto Sozzini – non si definirono mai tali. L’espressione “Riforma radicale” fu coniata dallo storico statunitense George H. Williams nel 1957 nella sua opera omonima, in contrapposizione alla “Riforma magisteriale” dei fondatori delle nuove Chiese protestanti. In precedenza, tra Otto e Novecento, Alfred Hegler ed Ernst Troeltsch avevano già individuato il fenomeno, che altri storici denominarono “ala sinistra” della Riforma. Il merito di questa classificazione è di avere liberato i radicali dal giudizio spregiativo con il quale Martin Lutero liquidò le loro istanze religiose: quello di Schwarmer (fanatici). Lutero, seguito da tutti i riformatori magisteriali, li giudicò pericolosi sovvertitori del nuovo ordine cristiano, creato con l’istituzione di Chiese riformate e con l’appoggio loro fornito dal potere politico, e cercò pertanto di escluderli o di spingerli ai margini della Riforma. Un tentativo continuato, nel tempo, dalla storiografia confessionale. In realtà, l’obiettivo cui i radicali mirarono era di rifondare integralmente la società cristiana, tornando alle origini evangeliche della Chiesa attraverso un’opera di rinnovamento dell’individuo come della comunità. A tal fine, svolsero fino alle estreme conseguenze i principi fondanti della Riforma – la centralità assoluta della fede interiore, la libertà del cristiano, l’interpretazione personale della Scrittura – elaborando concezioni innovative della religione, della Chiesa, dei rapporti tra questa e lo Stato, della tolleranza, della libertà. Nella loro ottica, si trattava di un’operazione pienamente legittima e coerente con la lotta di Lutero, nata come opposizione contro l’autoritarismo dell’«Anticristo» romano in vista della restaurazione di valori e modelli del cristianesimo delle origini. Remore e compromessi non potevano intralciare la realizzazione di questo compito fondamentale, che fu vissuto con dedizione totale, anche a costo di grandi sacrifici personali, sovente della vita stessa. La posizione di Lutero e degli altri riformatori magisteriali era speculare: essi si impegnarono con grande serietà nella costruzione della “nuova Gerusalemme” celeste sulla terra – nel caso di Lutero, anche con una prospettiva apocalittica – e videro nel non conformismo una grave minaccia per la loro opera. Il riformatore di Wittenberg, con le sue idee, aveva però scoperchiato un vaso di Pandora: sin dagli inizi, il suo messaggio subì una radicalizzazione, nel contesto del celerissimo e tumultuoso sviluppo della Riforma, che si verificò in tutta l’Europa – perché europeo fu il fenomeno della Riforma radicale. Mitigare, irreggimentare, orientare il movimento in canali dottrinali e istituzionali nuovi sì, ma comunque coattivi, fu impresa ardua, che domandò il ricorso alla dialettica come alla costrizione. Tuttavia, se sul piano dell’elaborazione concettuale fu impresa fertile per gli stimoli reciproci che ne derivarono, sul fronte della repressione essa fu, alla lunga, fallimentare. Malgrado gli sforzi compiuti dalle Chiese riformate per persuadere, controllare o eliminare i non conformisti, essi sopravvissero in piccole comunità, soprattutto nei paesi più tolleranti come quelli dell’Europa orientale e in Olanda, prima di espatriare in America e di contribuire là alla nascita di una società libera, democratica e pluriconfessionale. Furono però i loro principi ad avere vita fertile e duratura, innervando il pensiero dell’Europa moderna per divenire poi patrimonio comune della nostra civiltà. In conclusione, la Riforma radicale perseguì obiettivi in parte diversi da quelli delle Chiese magisteriali e dimostrò, nel tempo, un’altra vitalità culturale, ma fece comunque parte, a pieno diritto, del complessivo moto riformatore.
(da L. Felici, La Riforma radicale, in Storia del cristianesimo, direzione scientifica di E. Prinzivalli, Roma, Carocci, 2015, vol. III, pp. 237-238)*
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