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Il pensiero coranico distingue due differenti situazioni di liberazione dal male, anch’essa ovviamente determinata da Dio; l’una che è antecedente il male stesso, l’altra che è a esso successiva. Nel primo caso – scampare al male a parte ante, prima che il male accada – si tratta dell’ambito semantico della custodia, espresso nel Corano e in generale nel lessico islamico tramite il verbo hafiza con i suoi derivati: l’uomo è preservato o salvaguardato, protetto, mantenuto al riparo; è inoltre l’ambito dell’infallibilità o impeccabilità, espresso dal verbo asama che significa in prima istanza trattenere e impedire. Quanto al secondo caso – rimediare al male, scampare a parte post – si tratta effettivamente di liberazione, ma è importante notare che essa non viene espressa nel Corano dalla radice verbale che normalmente dice l’emancipazione, la manomissione, insomma la ritrovata condizione di non servitù, cioè il verbo arabo harrara con i suoi derivati. Il motivo è ormai evidente: l’uomo è comunque servo, la libertà appartiene a Dio. Invece, la liberazione dal male fa un tutt’uno con l’idea di “ritorno”, espresso da una voce araba, tawba, la quale significa allo stesso tempo “perdono” e “pentimento”, perché nel perdono è Dio che ritorna all’uomo e nel pentimento è l’uomo che ritorna a Dio per Sua grazia. Gesto all’indietro verso la disposizione originaria, tawba dice propriamente la riconversione e la redenzione.
Non di rado il Corano rappresenta i temi salienti dell’insegnamento grazie alle vicende di alcuni personaggi già noti al proprio uditorio, per lo più dei profeti biblici. Per esemplificare la liberazione antecedente il male, con l’impeccabilità e l’infallibilità, il Libro ricorre alla figura di Gesù insieme a quella di sua madre Maria: le molte rivelazioni a essi dedicate non ventilano alcun tipo di male da parte loro, né disubbidienza né, tutto sommato, malasorte; entrambi sono colmati di doni da Dio, sempre. Va detto però che il loro statuto è fortemente esclusivo e per molti versi quasi superumano: non è un caso se entrambi sono dichiarati “un prodigio” o “un Segno”, in arabo aya, termine che dice anche “versetto coranico”. Nella sura dei Credenti (Corano 23) si recita ad esempio: «50. del figlio di Maria e di sua madre abbiamo fatto un segno. Abbiamo dato loro rifugio su un monte quieto, bagnato dalle sorgenti». E nella sura della famiglia di Imran (Corano 3): «45. [ricorda] quando gli angeli dissero a Maria: “Maria, Dio ti dà il lieto annuncio di una Parola che viene da Lui, il cui nome sarà il Cristo, Gesù figlio di Maria […]. 46. Parlerà agli uomini dalla culla come un adulto, e sarà tra i buoni” (min al-salihin)» […].
Quanto all’idea di liberazione dal male come operazione a posteriori, come rimedio, è attestata nel Corano con maggiore frequenza. Innanzitutto attraverso la figura dei progenitori, tutta costruita attorno all’ammissione sincera del loro male, dunque sulla forza del pentimento o ritorno il quale si esprime in una preghiera, appello alla misericordia di Dio. Chiamati dal Signore a rispondere della loro disubbidienza, Adamo e Eva dicono, secondo la sura del Limbo (Corano 7): «23. Signore nostro, abbiamo fatto torto a noi stessi (anfusa-na), se Tu non ci perdonerai e non avrai compassione di noi, saremo perduti».
E Dio li perdonerà. Si noti che la sincera ammissione di disubbidienza e al tempo stesso dell’avversità patita cela lo schietto consenso al progetto divino, il genuino accoglimento della signoria di Dio e dello statuto passivo dell’umanità. Quando Adamo ed Eva dichiarano di aver fatto torto “a se stessi”, alle proprie persone, in arabo anfus (pl. di nafs), ammettono appunto di aver fatto torto non all’essere di Dio ma al proprio, cioè di aver deviato da quel docile e quasi spontaneo conseguire al disegno divino che è il frutto buono della loro originaria disposizione di servi. E questa ammissione coincide con il perdono; non lo produce ma coincide con esso. Il gesto di ritorno da parte di Dio resta prioritario sul piano logico: nella sura delle Donne (Corano 4) è detto: «17. Soltanto a Dio si addice perdonare quelli che fanno del male per ignoranza e presto si volgono a Dio; allora Dio si volge a loro, Dio è sapiente e saggio. 18. Non si addice a Dio perdonare coloro che fanno del male e poi al sopraggiungere della morte dicono: “Ecco, adesso mi pento” […], per costoro abbiamo preparato un castigo doloroso». La stessa sura ricorda più avanti che: « 110. Chi fa del male facendo torto a se stesso e poi ritorna a Dio, troverà Dio indulgente e clemente».
Se c’è pentimento, il perdono di Dio è fuori di dubbio; ma solo perché senza il perdono di Dio il pentimento non si dà affatto. È un punto capitale: affermare l’identità di perdono e pentimento vale a dire che il ritorno, nell’apparente bidirezionalità, è sempre quello liberissimo e munifico di Dio: «Vi sono due tipi di ritorno – scrive ad esempio il celebre commentatore al-Tabari (m. 923 d.C.) – l’uomo che torna a Dio e Dio che torna all’uomo. Il ritorno del servo verso il suo Signore significa riconversione all’ubbidienza di Lui, disporsi nella direzione di quel che piace a Dio abbandonando quel che Lo mette in collera; il ritorno di Dio verso il Suo servo è il dono di tutto questo, ovvero della riconversione del servo, è la Sua stessa riconversione nei confronti del servo, dalla collera alla soddisfazione, dalla punizione al generoso perdono». Insomma, l’identità linguistica di pentimento e perdono non deve trarre in inganno: non suggerisce una parità tra l’uomo e Dio nel movimento del ritorno ma proprio il contrario, e cioè che una sola è l’origine del ritorno.
(da I. Zilio-Grandi, Male umano e perdono divino nella tradizione religiosa islamica, in G. Cunico e H. Spano, a cura di, Religioni e salvezza. La liberazione dal male tra tradizioni religiose e pensiero filosofico, Napoli, Fridericiana Editrice Universitaria, 2010, pp. 113-116)
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