L’Oceania non è né a occidente né a oriente: è a occidoriente. Partendo dall’Europa, si può volare o navigare verso l’Oceania andando verso est o verso ovest! James Cook, il grande esploratore britannico, alternò nei suoi viaggi di “scoperta” dell’Oceania la rotta occidentale (attraverso Capo Horn) alla rotta orientale (attraverso Capo di Buona Speranza). L’Oceania è occidoriente non solo in un senso geografico o cartografico, ma perché è spesso rappresentata nel nostro immaginario attraverso due potenti e contrapposti stereotipi. Da un lato, l’immagine “orientalizzante” ed esotica di un luogo primitivo, abitato dagli aborigeni australiani con i loro miti millenari e lo stile di vita nomade, dai papua della Nuova Guinea dediti al cannibalismo e alla caccia alle teste, fino alle avvenenti donne polinesiane immortalate nei quadri di Paul Gauguin. Dall’altro lato, l’immagine opposta di un mondo ritenuto ormai completamente occidentalizzato, invaso da folle di turisti e colate di cemento, sottomesso all’etica e ai riti cristiani: un vasto insieme di isole che avrebbero irrimediabilmente smarrito la ricchezza culturale e ambientale originaria. Un «paradiso trovato e perduto», secondo l’espressione del geografo Oskar Spate. Occidoriente è un neologismo che ho coniato per mettere a nudo la marginalità dell’Oceania nella nostra rappresentazione del mondo e, insieme, la forza e la banalità degli stereotipi che popolano l’immaginario sui Mari del Sud. Occidoriente, tuttavia, è anche un termine che scaturisce da una fusione, da una relazione tra l’Occidente e l’Oriente, tra “noi” e gli “altri”. […]
Per i suoi abitanti originari, tuttavia, l’Oceano non è affatto un vuoto. Se per gli occidentali l’Oceania è raffigurabile come una moltitudine di isole in un mare remoto, per i suoi abitanti è piuttosto un mare di isole, secondo l’arguta definizione di Hau’ofa. Un mare di isole in connessione, popolato a partire da 5000 anni fa da società di origine asiatica che si sono nel tempo fortemente differenziate, ma che a lungo hanno continuato a tessere rapporti e ad ampliare i propri orizzonti. Furono l’irruzione degli europei prima e in seguito il colonialismo vero e proprio a costruire confini rigidi, a erigere barriere reali e simboliche tra le società dell’Oceania: «Diviso, frammentato, ripartito tra le grandi potenze coloniali, il “continente Pacifico” diventava invisibile», come ha scritto Jean-Marie Le Clézio. Tuttavia, a partire dalla seconda guerra mondiale, sfruttando le opportunità di un mondo globale che ha messo in crisi i confini delle nazioni, molti oceaniani hanno ricominciato a viaggiare, a vagabondare, a ricucire reti all’interno e oltre i limiti del Pacifico. È questo fatto nuovo che ispira a Hau’ofa una visione «nuova e ottimistica» dell’Oceania, che mi sento di condividere. Molte società oceaniane vivono in questi anni un inatteso rinascimento, un periodo di intenso fervore artistico, politico e culturale. L’attivazione di vecchie e nuove relazioni interinsulari, l’estensione delle tradizionali reti di alleanza, le migrazioni, le diaspore contemporanee, il rapporto con la modernità e la globalizzazione economica, sembrerebbero all’origine di questo complesso fenomeno di rinascita. […] L’antropologia è una sorta di “specchio” che ci permette di guardarci a una certa distanza. Molte società dell’Oceania, con il carattere aperto e dinamico delle loro tradizioni, con il loro senso di ospitalità verso l’“altro” e lo “straniero”, con le loro eccellenze creative, parrebbero capaci di smascherare il mito dell’identità di cui molta parte dell’Occidente sembra oggi essere prigioniera. Le società, diceva Jean-Marie Tjibaou, sono il frutto di una «riformulazione permanente» e l’identità è «davanti a noi, mai dietro».
(da A. Favole, Oceania. Isole di creatività culturale, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. vii-xv)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.