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Appare sempre più evidente che l’affermazione moderna della tolleranza fu il frutto non programmato di una serie di fattori politici, culturali e religiosi, piuttosto che di un’improbabile deduzione da principi o teorie che avrebbero avuto in se stessi la capacità di plasmare la realtà. Ciò non significa affatto negare la rilevanza del dibattito filosofico, teologico e giuridico, e in particolare delle voci che anticiparono, accompagnarono e legittimarono l’affermarsi di legislazioni e di prassi tolleranti. Significa soltanto constatare che alcune specifiche condizioni politiche e sociali condizionarono lo stabilirsi effettivo di quei principi e anzi furono determinanti per la loro stessa definizione. Il pluralismo religioso si configurò in alcuni Paesi europei, nel corso del Seicento, come un dato di fatto oggettivamente insuperabile: fu questo a rendere possibile l’elaborazione matura di un pensiero tollerante e, ovviamente, la sua ricezione nell’ordinamento giuridico. […] La tolleranza religiosa ha dunque origini “settarie” e i suoi primi teorici sono autori che si collocano ai margini delle diverse ortodossie, se non chiaramente al di fuori di esse. Si deve peraltro riconoscere che, nonostante l’intolleranza di principio delle principali Chiese protestanti, fu nell’ambito dell’irradiamento della Riforma che si posero le condizioni per l’affermazione di una qualche forma di libertà religiosa. Ma anche questo non avvenne per una sorta di deduzione del principio del “libero esame”, quanto piuttosto perché la Riforma favorì il determinarsi, in alcuni ambiti politici, di un pluralismo religioso che non poteva essere rimosso senza costi politici, economici e sociali che le autorità e la maggioranza dei cittadini non erano disposti a pagare.
(da S. Brogi, Attualità di un inattuale. Che cosa può ancora insegnarci Bayle sulla tolleranza?, «Prospettiva EP», 2010, n. 3, pp. 9-25)