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Tra gli anni della Restaurazione e quelli in cui fu realizzata l’unificazione nazionale italiana e tedesca il linguaggio della nazione e dei nazionalismi svolse una funzione di carattere prevalentemente «integrativo». Esso, cioè, stimolò e registrò al tempo stesso gli sviluppi delle lotte per la libertà, l’indipendenza e l’unità delle nazionalità oppresse, dando così un significato forte, e in qualche modo «progressivo», alla costruzione di nuove entità politico-statuali fondate sul principio dell’autodeterminazione dei popoli. Così avvenne per l’appunto – e su grande scala – nel caso dell’Italia e della Germania: si pensi a Mazzini, da un lato, e agli uomini del Parlamento di Francoforte, dall’altro. Certo, i processi di unificazione politica furono poi portati di fatto a compimento dall’alto, grazie cioè all’iniziativa militare e diplomatica di stati dinastici consolidati quali il Piemonte dei Savoia e di Cavour e la Prussia degli Hohenzollern e di Bismarck. Sta di fatto, in ogni caso, che il linguaggio della nazione rimase ancora pressoché interamente costruito sull’idea di ricostituire la (presunta) unione originaria di popoli – per l’appunto le «nazioni» – che si trovavano a essere sottomessi al dominio diretto o all’egemonia di stati o dinastie «straniere». In questa prima fase dunque, almeno in linea di principio, l’idea di nazione fu il veicolo di un senso di appartenenza più che di esclusione. Non generò ancora guerre di «conquista», ma solo di «liberazione» (anche se i confini tra i due tipi di conflitto possono diventare assai labili, come doveva dimostrare il tentativo hitleriano di «liberare» i tedeschi dell’Europa centro-orientale).
E soprattutto, venne a configurarsi come un principio in qualche modo universalizzabile, conciliandosi così con i progetti di una riorganizzazione dell’Europa su basi federalistiche.Dopo la costruzione degli stati nazionali italiano e tedesco – e dunque a partire dall’ultimo trentennio del XIX secolo – per lo meno in Europa la sintassi della nazione e dell’idea di nazione prese a trasformarsi in maniera più o meno radicale, secondo alcune linee già peraltro anticipate dal corso dell’unificazione bismarckiana del mondo tedesco. Il mutamento in questo senso decisivo fu che la «nazione» cessò di essere l’ideologia di un’élite politica e/o intellettuale impegnata nella costruzione di una più ampia unità politica e statuale per divenire, senza residui, l’ideologia legittimante e primaria di uno stato ormai consolidato e dotato, per definizione, degli attributi caratteristici della sovranità. Di uno stato, cioè, che all’interno – in quanto stato burocratico centralizzato – rivendicava il monopolio dei mezzi dell’amministrazione e della coercizione fisica e che all’esterno – in quanto stato-potenza nel senso rankiano – andava confrontandosi con altri stati sovrani nell’arena sostanzialmente anarchica della politica internazionale. Beninteso: fin dal XVI-XVII secolo gli stati moderni iniziarono a definirsi in questo duplice senso, vale a dire come stati burocratici e di potenza. È solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento tuttavia – con la rilevante anticipazione della Grande Nation francese all’epoca della Rivoluzione e delle guerre napoleoniche – che tali stati fecero ricorso sistematico alle ideologie della nazione abbandonando il riferimento alle retoriche della dinastia o a quelle puramente «politiche» della ragion di stato. Così, per fare solo due esempi classici, nella Francia di Napoleone III e poi della Terza repubblica e nella Prussia-Germania di Bismarck e poi di Guglielmo II. In ragione di questo nuovo e diverso riferimento, l’idea di nazione continuò a svolgere un importante ruolo di tipo «integrativo», sostenuto tra l’altro da istituzioni pubbliche quali la scuola e l’esercito.
Tale ruolo, tuttavia, poteva adesso caricarsi – come spesso accadde soprattutto nei regimi autoritari e totalitari del XIX-XX secolo – di implicazioni profondamente illiberali, legittimando retoricamente tendenze all’omologazione e all’irreggimentazione che potevano a loro volta autorizzare la persecuzione di presunti «nemici» interni: elementi «anti-nazionali» quali l’ebreo, il socialista, l’internazionalista. Nello stesso tempo, in questa nuova costellazione, l’idea di nazione poteva di nuovo retoricamente legittimare e alimentare – come di fatto avvenne nell’«età dell’imperialismo» – la «volontà di potenza» dello stato nazionale, le logiche classiche della ragion di stato, l’oppressione coloniale, la nozione di una missione specifica dello stato-nazione nella politica mondiale, e quindi la guerra.
(da F. Tuccari, La nazione, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 125-128)*
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