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Due sembrano essere i decisivi passaggi evolutivi sperimentati nella letteratura della seconda metà del Cinquecento: da un lato, la progressiva separazione tra il linguaggio della cristianità e il linguaggio della civiltà, sino a quel momento tendenzialmente sovrapposti nella valutazione delle forme di vita extraeuropee; dall’altro la sempre più esplicita tematizzazione di quel nesso tra unità e diversità dell’esperienza umana, che sarebbe divenuto il tema centrale del nuovo discorso etnoantropologico occidentale.
Entrambi i passaggi appaiono, in realtà, strettamente legati a una radicale revisione del concetto di barbarie ereditato dalla cultura tardomedievale, una nozione che all’inizio del XVI secolo rappresentava ancora l’ordinario strumento categoriale per relazionarsi a tutto ciò che esulava dall’orizzonte di senso dell’Europa cristiana: come ci ricorda Anthony Pagden, questa categoria era applicata genericamente, a scopo classificatorio, «a tutti i popoli non cristiani e per estensione poteva essere usata per indicare tutte le razze dal comportamento selvaggio o “incivile”, qualunque fosse il loro credo religioso». Essa era, dunque, la parola riservata a tutti coloro «che non vivevano secondo le norme sociali degli europei e non ne condividevano il punto di vista religioso». E in entrambi i casi «era implicito che ogni creatura così definita fosse in qualche modo un essere umano imperfetto».
Ora, ciò che troviamo in atto in alcuni passaggi chiave del dibattito tardocinquecentesco sulle popolazioni extraeuropee è già un esplicito tentativo di mettere in discussione il potente cortocircuito tra credenze religiose e razionalità sociale presente alla base dell’impostazione tradizionale: ciò che accomuna, al di là di tutte le differenze, gli scritti di Las Casas sulla civiltà amerindia delle Antille, le cronache peruviane di Pedro de Leon e le testimonianze dei missionari gesuiti in Estremo Oriente è infatti proprio la tendenza a cogliere nelle forme di vita non europee una misura di civiltà che, almeno in parte, sembra poter prescindere dalla religione praticata. Come a dire che «sistemi non europei di leggi e costumi» potevano essere considerati «razionali» e «civili» nonostante la loro palese difformità dai principi della religione cristiana, consolidato fondamento della forma di vita europea.
È in particolare nell’Apologética historia sumaria, «voluminoso trattato di etnologia amerindia» scritto a partire dal 1551 dal frate domenicano Bartolomé de Las Casas, che è possibile toccare con mano la sostanza – e i limiti – di questa apertura di credito alle civiltà extraeuropee. Quello di Las Casas è, infatti, il primo compiuto tentativo di integrare la descrizione empirica di usi e costumi degli indios – caratteristica di tutta la «letteratura di viaggio» dell’epoca – con un’analisi critico-comparativa del tipo di razionalità da essi incarnata. E obiettivo dichiarato dell’opera è quello di «dimostrare, sulla base di un poderoso corpo di dati empirici e storici, che le comunità indiane prima della conquista rispondevano a tutti i requisiti aristotelici di una vera società civile», spiegando nel contempo «per quali ragioni la cultura amerindia differisse talvolta radicalmente dalla norma europea».
Come è noto, le riflessioni di Las Casas trovano il loro specifico significato nel contesto di quel dibattito accademico sulla «condizione umana, sociale e legale degli indiani d’America», che in Spagna raggiunse il suo apice intorno al 1550 con la controversia di Valladolid. Quello che gli sta a cuore, infatti, è confutare da un punto di vista empirico e filosofico le tesi di chi – come l’erudito Ginés de Sepúlveda – giustificava il massacro e la riduzione in schiavitù degli indigeni chiamando in causa il dato di una radicale inferiorità ontologica che li rendeva del tutto simili alle bestie. Las Casas si sforza perciò di dimostrare che tra gli indiani e gli spagnoli non si pone una differenza di categoria, bensì il semplice divario che separa «nazioni situate a differenti tappe di un naturale e ineluttabile processo di evoluzione storica». Anticipando un gesto che sarebbe divenuto caratteristico di tutta la cultura settecentesca, egli rimuove dunque lo stigma dell’esclusione assoluta attraverso una temporalizzazione in chiave evolutiva della differenza esistente tra i popoli del Vecchio e Nuovo Mondo. Alla contrapposizione ontologica tra civiltà e barbarie, si sostituisce così un tipo di narrazione storica che identifica in ogni forma culturale, per primitiva che sia, una creazione della ragione naturale dell’uomo, destinata col passare del tempo a divenire più complessa e articolata, sino a raggiungere un compiuto livello di civiltà. Certo l’insidia in agguato tra le righe di questa ricostruzione è quella di una più sottile ma non mena pericolosa forma di negazione dell’altro, che assume le forme evoluzionistiche di un’unilineare metafisica del perfezionamento umano. Nelle pagine di Las Casas la riabilitazione degli indios si riduce infatti paradossalmente a un’apologia delle loro potenzialità evolutive, che finisce per dissolvere proprio la specificità della loro forma di vita. Come è stato sottolineato, il ritratto dei popoli amerindi che si può ricavare dalle sue opere è addirittura più povero di quello lasciatoci dai suoi avversari: degli indiani, infatti, non veniamo a sapere nulla, se non ciò che va a sostegno di un «postulato d’eguaglianza» formulato in termini del tutto assimilazionistici.
(da L. Scuccimarra, I confini del mondo. Storia del cosmopolitismo dall’Antichità al Settecento, Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 191-194)*
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