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Per comprendere quale esito abbia avuto nel Novecento il rapporto tra la coscienza europea e la guerra – nella cui luce tuttora viviamo – è necessario sottolineare una peculiarità della situazione dell’Europa nella seconda metà del secolo. E cioè la coincidenza verificatasi dopo il 1945 di due aspetti: da una parte la complessiva sconfitta militare del continente, destinata ad apparire ben presto nella sua autentica natura di una catastrofe geopolitica di portata storica; e dall’altra l’affermazione dappertutto nello stesso continente, a più o meno breve scadenza, di regimi politici democratici. La vicenda europea ha visto insomma un’inquietante sovrapposizione: sconfitta militare e democrazia hanno coinciso, l’una è stata causa dell’altra. Difficile credere che si sia trattato di una coincidenza. Il fatto è che in grandissima parte l’Europa – le cui classi dirigenti nell’estate del 1940 si erano tutte più o meno acconciate al dominio nazista – non è certo diventata democratica per sua scelta. Ma proprio perché figlia di una rovinosa sconfitta militare, la scelta dell’Europa per la democrazia, a differenza di quella americana, non sa né può sapere che cosa sia la potenza. Quasi per un oscuro senso di colpa legato al suo passato, nel quale la potenza ha finito per essere il più delle volte l’insegna dell’antidemocrazia, l’Europa si è indotta a considerare l’idea democratica incompatibile con la potenza. Rispetto a tale dimensione – così intrinseca a quella dell’impiego della forza, e dunque della guerra, e dunque, aggiungo, della politica estera – l’Europa dei parlamenti, dei giornali, della cultura, delle opinioni pubbliche, delle maggioranze, manifesta in ogni occasione una profonda estraneità, pronta a trasformarsi in ostilità. […]
La democrazia si è identificata quindi in Europa con la situazione sociale definita dal declino apparentemente irreparabile della politica e della statualità, dal prevalere di una mentalità centrata in misura straripante sulla soggettività e sulle pulsioni che a essa provengono da un contesto poverissimo di valori «alti», permissivo, opulento, in grado di concepire la dimensione collettiva solo nei limiti della convenienza. Da un punto di vista più strettamente e tradizionalmente storico-politico si potrebbe poi dire che in complesso l’esperienza europea della democrazia – a differenza per antonomasia di quella degli Stati Uniti – si è tutta svolta in assenza, e anzi rifiutando, la dimensione della «potenza». Ma lo ha fatto, o se si vuole ha potuto farlo, perché nel caso dell’Europa continentale la vittoria della democrazia, essendo stata per così dire regalata o in certo senso imposta all’Europa stessa dall’evento negativo della sua complessiva sconfitta nella Seconda guerra mondiale, da allora e per molti decenni è vissuta protetta dalla «potenza» degli Stati Uniti. La democrazia europea, insomma, non è fiorita nel vuoto o contando sulle sue forze: al di là dell’Atlantico c’era chi in qualche modo vegliava su di lei. Per mille ragioni questa situazione sembra però ormai volgere alla fine, forse è già finita. Mille motivi – tra cui quello molto reale della comparsa di imprevedibili e feroci nemici ai suoi confini – indicano che forse per la democrazia europea sta giungendo l’ora di un appuntamento fatale con la storia: un appuntamento nel quale mille indizi sembrano indicare che possa riacquistare tutta la sua antica crucialità la categoria tanto a lungo esorcizzata della guerra. La domanda naturalmente senza risposta è se, una volta giunti a quell’appuntamento, sapremo e potremo essere comunque all’altezza dell’ora restando padroni del nostro futuro. O se invece i fatti decideranno per noi, ma prodotti da altre volontà che non saranno le nostre.
(da E. Galli della Loggia, La coscienza europea e le guerre del Novecento, in M. Cacciari, L. Caracciolo, E. Galli della Loggia, E. Rasy, Senza la guerra, Bologna, Il Mulino, 2016, pp. 9-39)*
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