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Lo ha rilevato, non senza qualche apprensione, il più importante quotidiano degli Stati Uniti, The New York Times: nel 2003, per la prima volta nella sua storia, Physical Review, la prestigiosa rivista di fisica americana, ha pubblicato più articoli scientifici di autori cinesi che non di autori statunitensi. Un piccolo (ma non troppo piccolo) segno che la geopolitica della ricerca scientifica si va modificando. E che il polo della scienza e dell’innovazione tecnologica mondiale conta, ormai, un altro protagonista: la Cina. Anzi, l’intera Asia orientale. The New York Times coglie in questo e in altri elementi il segnale di una crisi latente della leadership scientifica e tecnologica degli Stati Uniti. Preludio di una possibile crisi economica e infine politica del paese. Perché da almeno settant’anni le due leadership, quella tecno-scientifica e quella economico-politica, sono strettamente legate. O, per dirla con l’economista Joseph A. Schumpeter, da almeno settant’anni la ricchezza delle nazioni è direttamente legata alla loro capacità di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico (con un’unica eccezione tra i paesi avanzati, l’Italia). Ma è davvero iniziato il declino della leadership tecno-scientifica americana? In realtà, i timori manifestati dal quotidiano di New York sono solo parzialmente fondati: gli Usa hanno e, presumibilmente, conserveranno ancora per alcuni anni il primato nella scienza e nell’innovazione tecnologica.
D’altra parte lo dicono le cifre. A tutt’oggi gli Usa investono in ricerca e sviluppo circa 280 miliardi di euro, pari al 2,8% del loro Prodotto Interno Lordo (PIL), contro i circa 100 miliardi di euro del Giappone (2,9% del PIL) e i 60 mi-liardi di euro della Cina, che ha ormai raggiunto il terzo posto tra i paesi del mondo in quanto a investimenti assoluti, precedendo la Germania (52 miliardi di euro), la Francia (33 miliardi), il Regno Unito (30 miliardi). L’Italia, con circa 12 miliardi di euro, viene molto dopo. Insomma, gli Usa restano di gran lunga i maggiori finanziatori – e sono, di conseguenza, i maggiori beneficiari della ricerca scientifica al mondo. C’è da rilevare però che l’Unione Europea investe in ricerca circa 180 miliardi di euro (pari al 2% del PIL). Una cifra che la pone saldamente al secondo posto nella classifica mondiale, a una distanza non eccessivamente grande dagli Stati Uniti. Insomma, nel panorama geopolitico della ricerca, l’Europa c’è. Tuttavia le cifre assolute ci raccontano una parte della storia, ma non ci dicono tutta la storia. Non ci dicono, in particolare, che tipo di ricerca viene effettuata e non ci rac-contano la dinamica evolutiva delle politiche dei vari paesi. Ma, al di là di questo problema, è evidente che gli equilibri geopolitici della scienza e della tecnologia stanno subendo forti perturbazioni. E che presto da un sistema planetario (con gli Usa, come il sole, al centro) si potrà passare a un sistema a due o più centri. Con l’Europa e l’Asia che affaccia sul Pacifico (compresa l’India) che da pianeti diventano stelle. A questo sistema a tre centri si potrà aggiungere, forse, un quarto polo, quello russo. La perturbazione del vecchio sistema è dunque molto forte, tuttavia l’esito del processo evolutivo non è affatto scontato.