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Proprio in virtù della multiappartenenza che nelle società complesse e sviluppate è la condizione normale nella quale l’uomo vive la propria esperienza quotidiana, il soggetto individuale che si inserisce all’interno di un’organizzazione già costituita, con obiettivi e una “missione” già dati, non è più portato a identificarsi acriticamente con essa. Egli esibisce sempre più la capacità non solo di “leggere” e comprendere i contesti nei quali si opera, ma anche di analizzarli criticamente e di percepirli quali “luoghi” dinamici e processuali, stratificati, sottoposti a ritmi differenti di cambiamenti dovuti sia alla dinamica spontanea delle pratiche e delle relazioni interne sia alle esigenze di mutamento che scaturiscono dal rapporto con l’ambiente esterno. Egli appare cioè caratterizzato dall’attitudine non solo a collocarsi in modo non problematico all’interno di una determinata organizzazione o comunità, ma anche a inquadrare criticamente la propria esperienza nell’ambito di essa, a valutare i problemi che ne scaturiscono e individuare i mezzi e gli strumenti necessari ad affrontarli e risolverli. Questa attitudine è l’espressione di quella che Hegel chiamava la natura anfibia dell’uomo, la duplicità e l’ambiguità di fondo che lo caratterizza: “L’educazione spirituale, l’intelligenza moderna, producono nell’uomo questa opposizione che lo rende anfibio in quanto egli deve vivere in due mondi che si contraddicono l’un l’altro, cosicché anche la coscienza erra in questa contraddizione e, sballottata da un lato all’altro, è incapace di trovare per sé soddisfazione nell’uno o nell’altro. Infatti, da un lato noi vediamo l’uomo prigioniero della realtà comune e della temporalità terrena, oppresso dal bisogno e dalla necessità, angustiato dalla natura, impigliato dalla materia, in fini sensibili e nel loro godimento, dominato e lacerato da impulsi naturali e da passioni; dall’altro egli si eleva a idee eterne, a un regno del pensiero e della libertà, si dà come volontà leggi e determinazioni universali, spoglia il mondo della sua animata, fiorente realtà e la risolve in astrazioni, in quanto lo spirito fa valere il suo diritto e la sua dignità solo nell’interdire e maltrattare la natura, a cui restituisce quella necessità e violenza che ha subito da essa” (G.W.F. Hegel, Estetica).
Questa sua natura anfibia pone l’uomo di fronte alla costante esigenza di raggiungere e mantenere un equilibrio attivo e dinamico con il mondo in cui si vive, anche se non è facile, evitando di cadere, da un lato, nella tentazione di restare al di sopra della realtà, con l’utopia, dall’altro, al di sotto, con la rassegnazione. Quanto sia ardua questa sfida lo dimostra quella che Hegel considerava la malattia di certe manifestazioni di utopia romantica, l’ipocondria, quell’alternanza di fasi di furore progettuale e di esaltazione e di fasi di depressione e di rinuncia che, a suo giudizio, colpisce tutti coloro che, per non volere fare i conti con la “riottosa estraneità” del mondo, con la sua “burbera ritrosia”, che si concede solo a chi sa dominarlo effettivamente, pretendono di saltare oltre la realtà, di proiettarsi nell’ideale e nel possibile senza passare attraverso il tempo presente e lo spazio in cui, di fatto, si svolge la loro esistenza quotidiana. Costoro considerano l’ideale a portata di mano e si impegnano, di conseguenza, in una frenetica e febbrile attività per realizzarlo, salvo poi concludere, dopo ripetuti e inevitabili fallimenti, che esso è irraggiungibile e sprofondare, di conseguenza, nell’inerzia più totale e nella depressione.
Anche quando entra a far parte di un’organizzazione già ben definita, per l’uomo è fondamentale mantenere attiva, oltre alla capacità di “calarsi” all’interno del “clima” che la caratterizza e di inserirsi al meglio in essa, interagendo in modo efficace con coloro che la compongono, anche quella di “sentirne” e “vederne” la realtà non come un qualcosa di “già compiuto” e “definito”, di cui limitarsi a prendere atto, ma come un processo in divenire, che può assumere forme e modalità differenti rispetto a quelle che attualmente esibisce e che dunque non solo autorizza, ma esige da parte di chi opera nell’ambito di essa la tendenza a percepirla e pensarla altrimenti. Ne scaturisce l’orientamento a far coesistere e convergere senso della realtà e senso della possibilità, con un conseguente, forte legame tra percezione e progetto. Competente, attivo e dunque utile alla crescita di un’organizzazione e di una comunità è colui che sa aderire al contesto che le contraddistingue e all’insieme di regole, valori, significati, finalità che le caratterizzano, e sa quindi entrare in sintonia con un orizzonte di appartenenza e con un mondo condiviso. Quest’adesione non deve però avere nulla di rigido, di statico, in quanto, come detto, non è irriflessa e acritica, ma si accompagna, al contrario, alla capacità di considerare l’alveo, lo sfondo, la comunità come aspetti, atmosfere, ambienti che, almeno in parte, possono essere ripensati e riorganizzati, in quanto sono basati su condizioni mutevoli e, proprio per questo, sono per taluni aspetti revocabili e rinegoziabili. L’inserimento ottimale in un’organizzazione si colloca dunque nel punto di convergenza tra adesione e innovazione, tra capacità di calarsi in un contesto, di sentirsi a proprio agio e di agire con efficacia all’interno di esso, e capacità di “mettere alla prova” la tenuta di questo contesto di fronte alle novità che lo incalzano. L’organizzazione può infatti crescere, irrobustirsi e migliorare solo così, attraverso l’apporto di soggetti individuali in grado di coniugare la socializzazione, la pratica, il riconoscimento e l’adesione con la tendenza a ridisegnare ed estendere la loro esperienza, attualizzandola e facendola significare diversamente rispetto alle accezioni condivise ed egemoni. Questa esigenza di coordinare le prospettive di diverse comunità per il raggiungimento di una determinata finalità e per un più compiuto e armonico sviluppo dei soggetti individuali che operano all’interno di soggetti collettivi dà ulteriore ragione e forza all’idea che oggi il legame tra i primi (gli individui) e i secondi (le organizzazioni, le comunità ecc.) vada trattato, più che in termini di mera “appartenenza” (e quindi attraverso un approccio c1assicamente insiemistico) con una prospettiva diversa, orientata verso approcci alternativi.
(da S. Tagliagambe, Lo spazio intermedio, Milano, Università Bocconi Editore, 2008, pp. 103-106)*
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