Molto darwinismo sociale fu ben poco darwiniano. Ma c’era qualcosa che collegava fra loro tante opinioni così diverse, un denominatore comune se non a tutte almeno a quelle opinioni che insistevano sulle virtù benefiche della lotta? Credo che una risposta si possa trovare nell’immagine predarwiniana della vita umana come cimento, sforzo e conquista attraverso il dolore che tempra. Questa concezione foggiò gli occhiali con cui l’idea darwiniana della lotta per l’esistenza fu letta, interpretata, modificata, distorta, accettata, rifiutata, adattata. Per secoli l’esperienza del dolore ha trovato giustificazione (o consolazione) nell’idea che la sofferenza svolga in fondo una funzione positiva: essa sarebbe il mezzo di cui la natura o la divinità si servono per ammaestrarci o insegnarci la rassegnazione. Sul piano morale, tale visione del mondo ha alimentato le dottrine secondo cui la virtù e il bene si affermano solo nella lotta con il male: «non resta più virtù, / se manca forza al vizio» (Albrecht von Haller). Detto più prosaicamente, le avversità formano, temprano, migliorano il carattere. Senza la sferza del bisogno le facoltà umane non si sarebbero mai sviluppate: un’idea che percorre praticamente l’intero pensiero dell’occidente cristiano. Nelle parole del dottor Samuel Johnson (1709-1784), autore di un famoso dizionario della lingua inglese, «se né malattie né povertà si facessero mai sentire o temere, ognuno sprofonderebbe in un’indolente sensualità, senza più curarsi degli altri e neppure di se stesso. Mangiare, bere e starsene a dormire sarebbero le uniche occupazioni dell’umanità […]. Il male fisico è la causa del bene morale». Insomma,
«no pain, no gain», «aiutati che Dio t’aiuta
», e così via fino all’elogio del
self help. Dovremmo anche ringraziare gli avversari che ci sfidano, poiché ci stimolano a migliorare:
salus ex inimicis nostris. Trapiantate in questa visione della vita qualche idea darwiniana, anche solo orecchiata, e otterrete affermazioni come quella famosa (o famigerata) secondo cui «i milionari sono il risultato della selezione naturale» perché si sono fatti da sé, si sono dati da fare, ci hanno saputo fare e hanno sopraffatto la concorrenza.
L’elogio del conflitto come dimensione fondamentale e positiva dell’esistenza è un corollario di tale concezione. Il darwinismo ha solo arricchito un repertorio già vasto di argomenti a favore dell’economia fisica
e morale della natura. C’è verosimilmente più calvinismo che darwinismo in certi elogi del "far da sé", del
self-made man e della vita strenua che circolavano fra Ottocento e Novecento, e a maggior ragione nell’idea secondo cui lo sforzo di miglioramento e il progresso spirituale danno un senso all’intero processo evolutivo e riscattano tutte le sue durezze. Prodotto culminante dell’evoluzione, l’uomo ha infatti il dovere di coronare il processo cosmico elevandosi nello spirito, domando la materia e sottomettendo la parte bestiale della propria natura. Una simile visione consentiva di esorcizzare le conseguenze più sgradevoli della teoria darwiniana (in particolare l’origine animale dell’uomo e la cecità della selezione naturale), conciliando l’esigenza morale che il merito sia ricompensato con l’idea che il processo evolutivo abbia un senso e un fine, con la fede nel progresso attraverso il dolore.
In questo quadro, la lotta
darwiniana per l’esistenza assumeva, sotto le
sembianze di una concorrenza spietata per la sopravvivenza materiale o per l’affermazione di sé, il nobile significato di una
pugna spiritualis.
(da A. La Vergata, Colpa di Darwin?, Torino, Utet, 2009, pp. 86-88)*
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