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La libertà è il potere proprio dell’uomo di fare tutto ciò che non nuoce ai diritti altrui: essa ha per principio la natura; per regola la giustizia; per salvaguardia la legge; trova il proprio limite morale in questa massima:«Non fare a un altro ciò che non vuoi sia fatto a te»
. L’affermazione della costituzione giacobina del 1793, che non parla più di tolleranza, bensì di libertà religiosa, può essere presa come punto di partenza per una puntualizzazione concettuale della strategia su cui si basa in epoca moderna la vicenda della tolleranza, che si determina quasi sempre a partire da questioni di credo religioso, ma che viene poi a influire più in profondità nei processi di disciplinamento sociale che sottostanno alla costruzione dello Stato moderno. «Si può intendere la tolleranza, nel suo significato più ampio, come concessione di libertà a coloro che dissentono in materia religiosa»: così Kamen definisce la tolleranza, aggiungendo che, se da un punto di vista strettamente concettuale la storia della tolleranza non equivale al liberalismo, storicamente in epoca moderna nell’ambito della pratica politica i due concetti sono diventati l’uno pregiudiziale dell’altro, dal momento che la tolleranza è stata usata dal pensiero politico moderno quale fondamento essenziale di una moderna compagine statuale, compiutamente laicizzata, e di un’accettabile convivenza civile.
«Nei secoli scorsi, e per molti paesi ancora fino alla seconda metà del presente [il XIX secolo], si è fatto sempre questione, piuttosto che di vera libertà, di semplice tolleranza». Così Ruffini introduce il problema dei rapporti tra tolleranza e libertà religiosa, sostenendo che la tolleranza è propria di uno Stato confessionale che, costretto dalle necessità politiche contingenti ad ammettere altri culti, si limita a tollerarli; in uno Stato moderno invece dove i sudditi ai quali fare concessioni si sono trasformati in cittadini che hanno diritti, il problema diventa quello della libertà religiosa. Il problema della tolleranza compare allora intimamente unito a quello politico della costruzione statuale, tanto che la lotta per l’affermazione della tolleranza culminerà nella Rivoluzione francese che ha come proprio esito storico e politico lo Stato moderno e la libertà dei cittadini.
Ciò che unisce le definizioni di Kamen e Ruffini è l’idea, a fondamento del concetto di tolleranza, di concessione di una pratica da parte del potere politico in nome di un’ordinata e pacifica convivenza; dunque, il porre in evidenza come il concetto di tolleranza divenga nella lotta per l’affermazione dello Stato moderno uno dei concetti centrali attorno al quale si strutturano la neutralizzazione dei conflitti interni, il consenso unanime dei consociati – in qualunque confessione essi si riconoscano – e la distinzione tra sfera pubblica e sfera privata del singolo. Dal punto di vista teorico la domanda che viene formulata dagli autori che danno vita a quella che si definisce la «lotta per la tolleranza» e che abbraccia un arco di tempo che dal XVI secolo giunge fino al XVIII secolo, si articola secondo diversi (e, a volte, anche opposti) registri concettuali – tolleranza, libertà religiosa e neutralizzazione sovrana – che sono accomunati dal produrre mutamenti radicali nel rapporto tra sovrano e sudditi, tra Stato e individui, contribuendo a dare forma all’artificio statuale moderno. Il concetto di tolleranza, inteso in senso stretto e letterale, veicola originariamente un’idea di concessione da parte del potere a coloro che appaiono «diversi» rispetto all’ordine costituito, quasi sempre perché praticano un culto difforme da quello della religione stabilita. Sono «diversi» che il principe decide di tollerare, cioè di «sopportare» – allo stesso modo dei bordelli e dei vizi umani – a patto che tale diversità non si espliciti a livello dell’ordine pubblico, determinando turbamento politico. La rivendicazione della tolleranza nasce dalla distinzione degli scopi dello Stato da quelli della religione, distinzione che, sancendo il riconoscimento del pluralismo delle confessioni sulla base dell’idea pragmatica del massimo vantaggio (in questo caso la necessità della fine delle guerre civili di religione), determinerà in seguito il riconoscimento dei diritti sociali e politici di tutti gli individui che formano la società (sanciti dalle costituzioni della Rivoluzione francese), rivendicati non più solo in nome della tolleranza da parte del principe, ma in nome della libertà religiosa quale diritto subiettivo inalienabile. La tolleranza, che si definisce in epoca moderna essenzialmente quale problema teologico-politico, è perciò da una parte il prodotto dell’azione politica dello Stato assoluto – che è, a sua volta, un modo determinato di interpretare la religione allo scopo di spoliticizzare il conflitto di religione. Ma dall’altra è anche l’esito del deismo (movimento filosofico sviluppatosi in Inghilterra alla fine del XVII secolo e diffusosi in Europa grazie anche all’infaticabile opera di Voltaire), che, teorizzando un nucleo di religione naturale riconoscibile dalla ragione umana individuale, opera la neutralizzazione – da un punto di vista teorico – del contenuto dogmatico delle religioni storico-confessionali causa delle guerre civili di religione.
(da M.L. Lanzillo, Tolleranza, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 13-15)*
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