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I poeti latini dell’età augustea non hanno smesso di elogiare la grandezza di Roma, la città-mondo, giocando sui due termini latini urbs (città) e orbis (mondo). Tra Ovidio che vedeva confondersi “lo spazio della Città e lo spazio del mondo” e Orazio che desiderava che “il Sole […] non potesse visitare niente di più grande della città di Roma”, assistiamo a un concerto di elogi per celebrare la Città, la sola degna di accogliere tutti gli dèi. Quando Augusto dà avvio al Principato (nel 17 d.C.), Roma accoglie circa un milione di abitanti venuti da tutti gli angoli dell’Impero. Nel II secolo Elio Aristide, un retore greco ma cittadino romano, celebra la forza (rhômè in greco) di Roma, esaltandola come un microcosmo di tutto il mondo abitato, dove si concentrano tutte le ricchezze. All’inizio dell’età imperiale la popolazione straniera che abitava a Roma era, per lo più, d’origine orientale. Allo stesso modo anche le divinità straniere, presenti in città, avevano la medesima origine.
La conferenza affronterà il comportamento sociale e comunitario – ma non ghettizzato – delle popolazioni emigrate dall’Oriente mediterraneo, un comportamento che può ricordare la situazione contemporanea dei migranti di oggi. Nonostante i diversi livelli di integrazione, gli stranieri – e più in particolare coloro che provenivano dall’Oriente – si trovavano talvolta di fronte a una xenofobia latente che colpiva il loro supposto esotismo eccentrico ed eccessivo, divenuto un’immagine respingente dell’Alterità.
I fedeli delle religioni orientali, emigrati o integrati da molto tempo, adottarono le forme romane delle rappresentazioni religiose o del culto, perché le loro devozioni ancestrali non erano utilizzate per costituire una difesa contro l’integrazione. Questo atteggiamento può essere spiegato da ragioni sociopolitiche, dal momento che gli immigrati d’origine orientale non erano né marginali né marginalizzati nella società romana. Il loro inserimento non poteva realizzarsi senza un minimo di adesione al contesto, sia formale sia mentale, nel quale i Romani si riconoscevano: di qui l’adozione di forme religiose romane grazie alle quali la divinità straniera poteva ottenere maggior pubblico e maggiore rispettabilità, senza sacrificare la propria personalità. Una prova importante di questi fenomeni è fornita dalle lingue utilizzate nelle loro manifestazioni religiose.