La teologia metafisica non ha potuto pensare la differenza del divino, la sua irriducibile alterità. Forse in ragione di un vincolo profondo, comunque impensato, con le matrici segrete delle forme di religiosità che non ha saputo mettere in crisi, la teologia stessa ha potuto sostenere il rapporto col mistero che circonda l’esserci dell’uomo sulla terra. Una religiosità troppo umana, che sia soltanto l’espressione del bisogno dell’uomo di trovare quell’assicurazione del proprio essere che gli fa difetto in modo irreparabile, non può incontrare il Dio divino, ma solo il Dio dell’uomo. Da questa religiosità troppo "naturale" la teologia non ha saputo prendere le distanze, anzi ha finito per giustificarne le pretese, al di là delle più oneste intenzioni, attraverso la costruzione di un Dio funzionale alla richiesta di senso di cui si presume che l’uomo detenga il diritto. L’uomo pretende un senso per la propria vita che Dio gli deve garantire. È dunque l’uomo che stabilisce il compito del Dio – il senso del suo essere divino nell’ambito della propria generale volontà di senso -, anziché porsi a disposizione del Dio, vale a dire del mistero che lo chiama in causa dal profondo della sua esistenza finita, senza che egli abbia avuto il tempo di fissare le proprie condizioni. Ed è conveniente comprendere come a questa rivendicazione del senso, costitutiva della soggettività dell’uomo moderno e del suo bisogno di certezza, abbia preparato la strada il Dio delle dimostrazioni scolastiche, sostenute dal postulato dell’incontraddittorietà dell’essere. Ma, come considera Nietzsche, «tutto ciò che in primo luogo deve farsi dimostrare, ha scarso valore». Possiamo pertanto pensare che ciò che senza alcun dubbio il rifiuto ateistico colpisce è un Dio ridotto alla misura dell’uomo, mentre il pensiero della differenza cerca nell’assenza del Dio il significato ontologico più profondo del suo restare altro.
(da M. Ruggenini, Il Dio assente. La filosofia e l’esperienza del divino, Milano, Bruno Mondadori, 1997, pp. 11-12)*
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