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L’azione umana è un’azione che si manifesta nel presente e si proietta verso il futuro, la nostra memoria agisce in base agli eventi e alle funzionalità. A livello collettivo, la consapevolezza della condizione di transitorietà è costantemente presente, sebbene ciò non implichi di conseguenza il bisogno di una forma di narrazione, di una storiografia organizzata. Non esiste dunque una cultura umana senza un elemento costitutivo di memoria condivisa. Ricordando, interpretando e rappresentando il passato, i popoli comprendono la loro vita presente e sviluppano una prospettiva futura su se stessi e sul mondo. Tuttavia, una storia che non può rifarsi, anche in maniera critica, alla memoria personale – sia essa dovuta all’esperienza diretta o a un apprendimento mediato – è difficilmente accettabile come “nostra”, come storia dei lettori o degli ascoltatori. Questo aspetto spiega la capacità di attrazione di una storiografia in grado di interagire con la storia recente.
Forse è proprio questo ricorso dialettico alla memoria che potrebbe segnare la differenza rispetto alla narrazione mitica, sebbene molto simile – se non addirittura identica – alla memoria per forma, funzione, e spesso anche per ambiti di trattazione. Nella tradizione europea la storia inventa se stessa proponendo il tentativo di discutere in modo critico – non sempre legittimamente – la narrazione mitica (come nel caso, ad esempio, di Tucidide nei confronti della Guerra di Troia). Ovviamente, la storia resta dominio delle persone che sono state cresciute all’interno di un sistema di memorie collettive e individuali. Anche se la storia è critica, e dunque in cerca di chiarificazioni, precisazioni o addirittura di una revisione totale, resterà comunque critica nei confronti di qualcosa di preciso, nei confronti di un avvenimento puntuale, e non agirà in maniera totalizzante. La storia, fin dal principio – al contrario della memoria – introduce in maniera critica la contingenza per discutere la verità stabilita degli altri. La storia può fornire legittimazione e la storiografia, o le storiografie, ne rappresentano lo strumento d’azione. Introdurre un fenomeno di competizione a livello di capacità legittimante del passato è un aspetto tanto importante quanto pericoloso. Ecco dunque perché alcune religioni e alcune epoche sono più inclini alla storiografia rispetto ad altre. A partire da questo contesto e da questi presupposti, cercherò di proporre solo un caso come esempio di riflessione: la religione romana.
La religione romana è spesso rappresentata come un sistema statico, talvolta modificato da occasionali aggiunte o elisioni, ma di natura sostanzialmente stabile e omogenea. Questi sono presupposti che certamente non possono essere negati a livello di necessità di ricostruzione storica. Tuttavia, approfondendo l’argomento, risulta evidente che si tratta di un sistema religioso caratterizzato da elementi cruciali di auto-storicizzazione. A partire dal II secolo a.C. la crescita del pantheon romano può essere ricostruita, da un punto di vista cronologico, tramite la combinazione del calendario e degli elenchi dei magistrati (i fasti). A partire dal I secolo, Varrone, nel suo Antiquitates Rerum Divinarum, sembra aver integrato le informazioni cronologiche note con un approccio storicizzante nei confronti della religione all’interno di un orizzonte più ampio. Quella che abbiamo davanti è dunque l’immagine di una religione storicizzata che, in un’epoca coeva all’ebraismo e al cristianesimo delle origini, costituisce un legame tra ricostruzione storiografica e costruzione storica. In questa prospettiva, la staticità della religione romana mostra una nuova complessità, abolendo le strutture interpretative e conferendo all’immobilità delle categorie storiografiche la mobilità della storia.