Nato di fatto con Platone, che ne crea l’archetipo, e assunta la fisionomia moderna (e il nome) con Thomas More, il genere utopico si fa portatore di un progetto globale di ristrutturazione di tutte le relazioni umane, per lo più in forma narrativa, e cioè come trattato oppure come racconto di un viaggio in paesi immaginari. In questo quadro, è carattere distintivo dell’utopia presentare il mondo descritto come perfetto o sommamente desiderabile, felice e giusto. Essa si rivela strettamente imparentata con generi filosofico-letterari di interesse non marginale nell’ambito della storia della cultura e delle idee: nelle narrazioni utopiche, in particolare, si evidenziano innumerevoli analogie, anche di carattere sostanziale, con le fantasie compensative e di rovesciamento (spesso d’impronta “carnevalesca”), con la trattatistica politica, con le attese millenaristiche, con i racconti di viaggi in territori inconsueti o favolosi. Il pensiero utopico avverte l’esigenza di illustrare, considerandola allo stesso tempo esclusiva e vincolante, una proposta globale di ordinamento comunitario che, lungi dal tralasciare la rigida pianificazione dell’ottima condotta individuale, si preoccupa di assumerla come pilastro costitutivo del proprio disegno. All’interno di questa visione, tutti gli aspetti appaiono non soltanto contemplati, ma anche regolati con uno zelo e una minuzia estremi, al punto da sconfinare spesso in un’autentica ossessione precettistica. Spetta a questa ragione ipertrofica tanto disciplinare quanto perpetuare nel tempo l’ordine eccelso instaurato fra uomo e cose: per conservare tale armonia è quindi necessario che pure la vita dell’individuo si uniformi ai princìpi razionali che reggono la comunità e che, si pensa, animano l’universo intero: proprio questa loro presunta generalità ammonisce i singoli e la società utopica contro ogni tentativo di introdurre riforme e innovazioni. Seguendo l’evoluzione del genere utopico, approdato nel Novecento ad un’antiutopia ormai scettica dinanzi al futuro, e muovendosi su un piano eminentemente “descrittivo”, Comparato rileva che l’utopia «utilizza il suo non essere in nessun luogo per annettersi il mito e il sacro, il passato e il futuro, l’uguale e il diverso», ragion per cui essa «è stata e rimane un potente mezzo di riflessione politica, certo più credibile come critica alle società in cui si manifesta, e come mezzo per mantenere fluida e costante la tensione verso il miglioramento della condizione umana, che non come fabbrica di progetti istituzionali» (p. 241), che risultano infatti inesorabilmente legati alle condizioni del proprio tempo.