In tempi remoti – come narrano i libri biblici di Genesi e Giudici – all’ospite venivano offerti doni preziosi, come il sacrificio della concubina. Sapremmo interpretare oggi la metafora in modo adeguato? Che cosa offriamo agli ospiti, e loro a noi, per salvaguardare un’integrità che di scambi si nutre? E’ solo una delle molte domande sollevate da Jacques Derrida – che a questi temi ha dedicato di recente le opere Adieu à Emmanuel Lévinas e Cosmopolites de tous le pays, encore un effort! (Galilée, 1997) – in questo libro che raccoglie, a cura della filosofa e psicoanalista Anne Dufourmantelle, due sedute di un seminario sulle società multietniche. Lo straniero è in primo luogo straniero rispetto alla lingua nella quale sono formulati il dovere d’ospitalità, il diritto d’asilo, i limiti, le norme e i codici di polizia, e una riflessione sull’ospitalità presuppone oggi la possibilità di una delimitazione rigorosa delle soglie o delle frontiere: tra il familiare e il non familiare, il cittadino e il non cittadino, il privato e il pubblico. Ma prima ancora della questione dello straniero come tema, titolo di un problema, programma di ricerca, si pone la questione della domanda rivolta allo straniero (chi sei? da dove vieni? che vuoi? vuoi venire?) e, procedendo a ritroso, la domanda dello straniero in quanto domanda venuta da fuori. In quale lingua lo straniero può pronunciare la sua domanda? Ricevere le nostre? In quale lingua possiamo interrogarlo? L’invito, l’accoglienza, l’asilo, il dare alloggio passano attraverso la lingua o il rivolgersi all’altro, ma Derrida si chiede se l’ospitalità incondizionata non consista nel sospendere il linguaggio, un certo linguaggio determinato, la tentazione di chiedere all’altro chi è, come si chiama, da dove viene. Il dilemma è tra l’ospitalità incondizionata che va al di là del diritto, del dovere o addirittura della politica e l’ospitalità circoscritta dal diritto e dal dovere. L’una può sempre corrompere l’altra, e questa possibilità di snaturamento è irriducibile e deve restarlo. L’ospitalità dà come impensato il rapporto difficile, ambivalente con il luogo. Come se il luogo coinvolto nell’ospitalità non appartenesse originariamente né all’ospite né all’invitato, ma al gesto con cui l’uno accoglie l’altro. In ebraico “fabbricare il tempo” equivale a “invitare”, una curiosa intelligenza della lingua che stabilisce la necessità di essere almeno in due per produrre, appunto, la trama del tempo.