Il libro, curato da Arnold I. Davidson, è una raccolta di saggi dello storico della filosofia Pierre Hadot (1922-2010), molti dei quali tradotti per la prima volta in italiano. Il volume è diviso in cinque sezioni che affrontano tanto questioni interpretative quanto problemi filologici e metodologici, sempre nella prospettiva cara a Hadot di una definizione della filosofia antica come pratica di vita. La prima parte comprende lo scritto Teologia, esegesi, rivelazione, scrittura nella filosofia greca, pubblicato originariamente nel 1987 all’interno dell’opera collettanea a cura di Michel Tardieu, Les règles de l’interprétation. In questo saggio, attenendosi ai criteri dell’organizzazione istituzionale e del metodo di insegnamento, Hadot sostiene che è possibile distinguere tre fasi nella storia della filosofia postsocratica. La prima, che va dal IV al I secolo a.C., è caratterizzata dalla presenza ad Atene delle grandi scuole filosofiche – platonismo, aristotelismo, epicureismo e stoicismo – il cui metodo di insegnamento si basa soprattutto sul dialogo tra maestro e discepolo e su esercizi dialettici. La seconda fase inizia nell’88 d.C., con l’assedio di Atene da parte dell’esercito romano comandato da Silla: le diverse scuole vengono chiuse e i loro esponenti sono dispersi in varie città dell’Oriente e dell’Occidente. Da allora in avanti, per necessità pratiche, i corsi di filosofia si baseranno soprattutto sul commento dei testi scritti. Questo passaggio dall’oralità alla scrittura non implica, però, secondo Hadot, uno snaturamento dell’essenza della filosofia: la disciplina continua a essere intesa sostanzialmente come un’arte di vivere, incentrata sulla pratica degli esercizi spirituali. Infine, una terza fase inizia nel III secolo d.C. e prosegue sino alla fine dell’antichità. In quest’ultimo periodo, l’esegesi svolge ancora un ruolo determinante, ma nella vita e nell’insegnamento filosofico si innestano anche elementi religiosi, rituali e teurgici. Per Hadot non è affatto casuale che il cristianesimo si sia sviluppato proprio nel momento in cui la filosofia greca aveva assunto una forma esegetica. Fondandosi sull’interpretazione dei testi biblici ed evangelici e indicando ai suoi seguaci uno specifico modello di vita, la dottrina cristiana doveva apparire, infatti, come una dottrina filosofica a tutti gli effetti, non troppo diversa dalla filosofia pagana. Del resto, le stesse idee di rivelazione e ispirazione divina, tipiche del cristianesimo, non erano affatto estranee alla tradizione filosofica greca. Si pensi, ad esempio, all’importanza dell’attività oracolare, al fatto che nelle opere letterarie della Grecia antica l’ispirazione poetica era assimilata a una forma di rivelazione divina e che i filosofi postsocratici, da Platone ad Aristotele fino gli stoici, danno grande importanza al palaios logos, vale a dire alle rivelazioni fatte dagli dèi agli uomini.
Mentre la seconda parte del volume è dedicata a una serie di articoli riguardanti questioni lessicali, la terza raccoglie due saggi sull’imperatore Marco Aurelio e il suo tempo (Marco Aurelio era oppiomane? e Riflessioni sulla nozione di mentalità collettiva). Nel primo, Hadot smentisce l’ipotesi avanzata da Thomas W. Africa in un articolo del 1961 (The Opium Addiction of Marcus Aurelius), secondo la quale l’imperatore sarebbe stato un oppiomane e alcuni dei suoi Pensieri corrisponderebbero a visioni e stati psichici provocati dall’abuso di tale sostanza. Attraverso un’attenta lettura del prologo del De antidotis di Galeno, Hadot mostra come, a differenza di quanto pensi Africa, non si può affermare con certezza quale fosse l’antidoto assunto da Marco Aurelio e soprattutto quale fosse la percentuale di oppio in esso contenuta. La testimonianza di Galeno consente solo di sostenere che, mentre era impegnato nella campagna contro i Germani, l’imperatore fu soggetto a stati di sonnolenza dovuti all’uso quotidiano di un antidoto contenente estratto di papavero. Quando eliminò dalla mistura questo estratto, andò invece incontro a stati di insonnia. La situazione fu risolta allorché, su consiglio dello stesso Galeno, Marco Aurelio fece ricorso a un antidoto invecchiato, in cui l’efficacia dell’estratto di papavero era fortemente ridotta. Nel secondo saggio viene criticata la tesi di Glen W. Bowersock (Greek Sophists in the Roman Empire, 1969), secondo la quale l’epoca degli Antonini sarebbe stata caratterizzata da una diffusa tendenza all’ipocondria. Anche in questo caso Hadot mostra l’inconsistenza degli argomenti proposti da Bowersock. In primo luogo, se è vero che la corrispondenza tra Frontone a Marco Aurelio verte quasi esclusivamente sulle malattie del primo, essa non può essere considerata un unicum nella letteratura di lingua latina: anche l’epistolario di Plinio, ad esempio, si occupa del tema delle malattie. Le lettere di Frontone, inoltre, prendono spesso le mosse da circostanze occasionali e possono perciò essere interpretate come biglietti di scuse di un malato desideroso di giustificare davanti all’imperatore la propria assenza a corte. In secondo luogo, afferma Hadot, i Discorsi sacri di Elio Aristide rappresentano senza dubbio un documento psicologico di prim’ordine sulla lunga malattia che afflisse il loro autore, ma questo non è sufficiente per provare che l’età antonina fosse dominata dall’ipocondria. Infine, le lezioni di anatomia tenute da Galeno a Roma – un altro degli indizi chiamati in causa da Bowersock – dimostrano soltanto quanto fosse vivo l’interesse scientifico e la necessità di una comprensione razionale dell’universo nell’aristocrazia romana. Le lezioni, infatti, non riguardano affatto temi patologici, ma sono destinate a rispondere a un problema contingente posto a Galeno dal senatore Flavio Boeto, il quale voleva conoscere gli organi che permettevano la respirazione e che erano coinvolti nell’emissione della voce. Hadot giunge dunque alla conclusione che ipotizzare l’esistenza di una mentalità collettiva, come fa Bowersock, sia un procedimento profondamente antistorico perché è il risultato di generalizzazioni arbitrarie e dell’impiego di categorie moderne e anacronistiche.
La quarta parte del volume si apre con un saggio apparso per la prima volta nel 1979 e dedicato alla classificazione delle parti nella filosofia antica (Le divisioni in parti della filosofia nell’antichità). Lo scopo di Hadot consiste nell’indicare le strutture concettuali che soggiacciono a tali sistematizzazioni e le relative concezioni filosofiche. Il primo sistema di classificazione individuato dallo studioso francese è quello platonico-aristotelico, interessato soprattutto a riconoscere la specificità dell’oggetto di indagine e dei metodi propri di ogni ambito di ricerca: in questo caso, la divisione tra le parti della filosofia ricalca la divisione delle scienze in teoretiche e pratiche, così come viene suggerito nel libro E della Metafisica. Il secondo sistema di classificazione è quello stoico, che alla rappresentazione gerarchica del primo sostituisce l’idea di un’unità dinamica tra le parti: l’immagine del cerchio e dell’organismo vivente rimpiazza quella della piramide concettuale. A partire dal I secolo d.C., grazie alla filosofia neoplatonica e al cristianesimo, si diffonde poi un terzo sistema di classificazione, basato sulla convinzione secondo la quale le varie parti della filosofia non corrispondono a un livello puramente intellettuale, ma rappresentano ognuna un gradino del progresso interiore necessario per la trasformazione spirituale dell’individuo. Mentre il sistema di classificazione platonico-aristotelico e quello stoico descrivono un ideale di saggezza particolare – il primo intendendo la saggezza come conoscenza universale, il secondo concentrandosi sulla presenza del logos nella realtà – il sistema neoplatonico e quello cristiano delineano invece le tappe che possono condurre l’uomo al distacco dalla realtà terrena.
Il volume si conclude con un articolo intitolato La fine del paganesimo, in cui Hadot sostiene che l’influenza esercitata dal paganesimo sul cristianesimo nascente – contaminazione quasi necessaria per la nuova religione, la quale per il suo spirito universalistico dovette adattarsi alle forme culturali e religiose esistenti – fu facilitata dalla crisi e dal radicale mutamento della religione pagana. In tal senso, un ruolo determinante fu svolto dall’ideologia imperiale, che assunse una dimensione cultuale sempre più intensa e condusse alla trasformazione del paganesimo in una sorta di monoteismo gerarchico che prevedeva l’esistenza di tre figure: un Dio trascendente, posto al di sopra di tutte le altre divinità, un secondo Dio, mediatore e organizzatore, e una Potenza divina. L’imperatore unico, scrive Hadot, non poteva che essere la prefigurazione di un Dio unico: in altre parole, Augusto prefigurava già Costantino. Alla crisi del paganesimo contribuiranno anche lo sviluppo della teologia razionale, che sistematizza le idee religiose e svuota di senso la credenza negli dèi e nei miti tradizionali, e al tempo stesso la diffusione di atteggiamenti devozionali e mistici, come quelli riscontrati nel neoplatonismo.