“Or così voglio, carissimo padre, che dolcemente ci inebriamo e bagniamo nel sangue di Cristo crocifisso; acciocchè le cose amare ci paiono dolci, e i grandi pesi leggeri; delle spine e triboli traiamo la rosa, pace e quiete”: ecco un minuscolo assaggio, tratto dalla Lettera 25, dello stile appassionato e fortemente espressionistico di Santa Caterina, religiosa e scrittrice senese nata nel 1347 e morta ancor giovane dopo un’esistenza votata, oltre che alla letteratura, alla politica e all’assistenza degli infermi. Di lei ci restano un Dialogo della divina Provvidenza e, appunto, 381 Lettere, indirizzate a papi e re, umili e potenti, già note ai cultori delle lettere italiane: ma la straordinarietà del presente volume risiede nel fatto che l’antologia fu pubblicata nel 1918 nella collana “Scrittori italiani” (diretta da Giovanni Papini) da Federigo Tozzi, concittadino di Caterina e autore, fra l’altro, di Tre croci e Con gli occhi chiusi, la cui produzione narrativa sta conoscendo negli ultimi anni una vistosa rivalutazione. Le cose più belle rappresenta dunque l’occasione migliore per cogliere dall’interno la statura del fervore religioso di Tozzi, filtrato dal suo amore per l’epistolario della Santa: per lui un vero e proprio livre de chevet che ne accompagnò lo stesso passaggio dal giovanile laicismo anarco-socialista al contraddittorio cattolicesimo, aspro e problematico, della maturità. Lo colpiva, in particolare, la sua “lotta per una piena coscienza di sè, contro i vizi dei contemporanei”. “Possiamo ancora trarne lunghe ispirazioni di forza, come forse nessuna filosofia moderna possiede”, scrive infatti di lei nella prefazione, perchè “Santa Caterina ci sbarazza di tutto ciò che ci impedisce di giungere fino al nostro io più profondo”, fino a ritrovare “quelle parole di cui abbiamo bisogno quando più ci chiudiamo in noi medesimi e la nostra sensibilità morale è perciò più desta”.
Oltre all’aspetto religioso ed etico – come sottolinea nell’approfondita introduzione Marco Marchi, docente di Letteratura italiana all’ateneo fiorentino e già curatore del “Meridiano” tozziano (Mondadori 1987) – emerge un altro motivo di interesse, quello linguistico, dato che Caterina, come i mistici autentici, utilizza codici e forme espressive sperimentalmente precarie per tentare di dire ciò che non può essere detto, l’ineffabile che urge nell’esperienza estatica. Di qui, l’impiego costante di figure retoriche quali antitesi, ossimori, paradossi, e soprattutto le metafore, alcune delle quali sembrano affascinare particolarmente Tozzi: “la nuvola dell’amor proprio”, “la spugna del cuore”, “il coltello dell’odio”, “la bottiga del costato”.