«È difficile intendere la nuova democrazia che nasce oggi in Italia e in Europa, dopo decenni di socialismo, dopo che le masse hanno fatto dure e terribili esperienze di totalitarismo proprio, dei propri nemici, dopo il crollo sistematico e ripetuto, durante venti anni, dei vari tentativi di mantenere in piedi o di restaurare la vecchia democrazia. È difficile penetrare le leggi di questa esigenza democratica nuova che sorge spesso da esperienze che democratiche non sono, da bisogni che, direttamente espressi, alla democrazia non conducono, da fatti e sentimenti che con l’originale democrazia poco o nulla hanno a che fare». Così scriveva Franco Venturi in un articolo apparso sul quotidiano torinese «GL» il 12 febbraio 1946, subito dopo lo svolgimento a Roma del congresso nazionale del Partito d’azione, che portò alla scissione di Ferruccio Parri e Ugo La Malfa.
Le due figure a cui faceva riferimento il titolo dell’articolo, Il cavallo e il cavaliere, erano rispettivamente il socialismo e la democrazia. L’errore più grave che il Partito d’azione poteva commettere consisteva, secondo Venturi, nel separare il cavallo dal cavaliere. Da una parte, infatti, si poteva rischiare di disgiungere le idee democratiche condivise dai dirigenti (anche se questi fossero stati «fra i più signori, i più intelligenti, i migliori che la crisi italiana abbia prodotto») dal sentimento socialista nutrito dalla base. Dall’altra parte, si poteva trasformare il socialismo in un’ideologia e non considerarlo più come un fatto politico concreto, il cui fine ultimo era tradurre sul piano della realtà effettuale le «esigenze socialistiche delle masse lavoratrici». In entrambi i casi, si sarebbe trattato di un «fallimento non senza gravi conseguenze per tutte le sinistre italiane». L’unica via percorribile, anzi la «sola possibilità di vita» dell’azionismo, scriveva Venturi, era tenere assieme, seppur «liberamente» e «originalmente», democrazia e socialismo. Salvare il cavallo e il cavaliere, appunto.
I dubbi su quale fosse l’assetto democratico più adatto per uno Stato reduce da vent’anni di dittatura fascista e da un conflitto sanguinoso, nel quale era stato trascinato dal regime mussoliniano, non erano nutriti dal solo Venturi, come sottolinea Danilo Breschi nel suo volume. Organizzato in sette capitoli, lo studio di Breschi prende in esame il triennio compreso tra il 25 luglio 1943 e il 2 giugno 1946 con un duplice scopo. Da un lato, analizzare i processi che portarono alla rinascita delle culture politiche dopo la caduta del fascismo, a partire dall’idea che per cultura politica debba intendersi il modo in cui una comunità, piccola o grande che sia, pensa l’organizzazione della società (dall’esistenza del singolo alla forma di governo più adatta per uno Stato) e concepisce il proprio rapporto con il potere. Dall’altro lato, illustrare i modelli di democrazia proposti dalle differenti forze politiche che si andavano ricomponendo e riorganizzando nel pieno della lotta contro l’occupazione nazifascista. Tali modelli, nota Breschi, coprivano un ampio spettro di possibilità e non si limitavano a una semplice negazione del fascismo, ma aspiravano alla definizione e all’attuazione di una democrazia caratterizzata da procedure specifiche attraverso soluzioni spesso anche molto sofisticate dal punto di vista istituzionale, giuridico e filosofico-politico.
Breschi conduce un’indagine minuziosa di tali modelli, grazie a una speciale attenzione alle figure della politica del tempo (da Togliatti a Guglielmo Giannini, da De Gasperi a Calamandrei, da Basso a Gonella, solo per citarne alcuni), ai loro scritti, ai loro discorsi, alla loro azione, e grazie a un uso accorto e meditato della vastissima bibliografia che si è accumulata nei decenni su questi temi. Dal libro emerge come tra le differenti culture politiche italiane siano rinvenibili ipotesi diverse di rifondazione democratica del Paese (dalla democrazia liberale alla democrazia progressiva), talvolta inconciliabili. Anche all’interno di una medesima compagine politica le differenze non erano meno evidenti: basti pensare alle divergenze che esistevano nel mondo cattolico riguardo ai rapporti tra Chiesa, Stato e società; al dibattito che coinvolse la galassia liberale sulla relazione tra sfera etico-politica e sfera economica; o ancora al dilemma, tipico del campo comunista, tra l’analisi del contesto italiano e la fedeltà ai legami internazionali.
Particolare attenzione è poi dedicata da Breschi all’azionismo, movimento la cui esperienza è da considerarsi un momento cruciale nella storia politica italiana del Novecento. Dalla lettura delle pagine di Breschi, sembra che, tra le numerose questioni, emerga la necessità di tornare a riflettere sulle domande che già poneva nel 1991 Vittorio Foa nella sua autobiografia, Il cavallo e la torre: «perché il Partito d’azione è morto? E quando è morto? È veramente morto del tutto oppure qualcosa ne è sopravvissuto?». Vale la pena cioè di provare a comprendere le ragioni che portarono, in un lasso di tempo molto breve, al fallimento di una proposta politica ambiziosa e intellettualmente raffinata, messa a punto da studiosi abituati al confronto con i grandi problemi che attraversavano la cultura europea. Una proposta che intendeva ripensare i valori risorgimentali, che scorgeva nel fascismo il deterioramento dei processi politico-culturali postunitari, e non soltanto un accidente della storia, che rigettava ogni forma di totalitarismo, che si poneva in esplicita continuità con la vicenda resistenziale e che cercava di trovare un punto di intesa tra le istanze dei dirigenti e le rivendicazioni dei gruppi operai e contadini. Ed è da qui, in fondo, da questo tentativo difficile di conciliazione tra intellettuali e popolo – preoccupazione chiaramente gramsciana –, che forse bisognerebbe prendere le mosse per guardare all’evoluzione della politica italiana del secondo dopoguerra e ai suoi nodi irrisolti.