Nel 1997 l’autrice aveva pubblicato un volume (La Bibbia al rogo) nel quale ricostruiva le cause che hanno portato il nostro paese a perdere familiarità con le Sacre Scritture e all’indifferenza per le questioni teologiche: l’offensiva inquisitoriale contro le traduzioni in volgare della Bibbia e la messa all’Indice di libri per il timore che attraverso di essi si insinuassero le idee della Riforma portarono dotti e “semplici” a interrompere una pratica di quotidiana lettura e ascolto. Con questo saggio – che si nutre dei documenti disponibili in seguito all’apertura, nel 1998, dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede – Fragnito approfondisce i risultati della sua precedente indagine e sottolinea che in quei provvedimenti si scorgeva in controluce l’obiettivo di garantire una specifica autonomia politica e teologica nei confronti della stessa potestas del pontefice. Attraverso un’aggrovigliata matassa di divieti e provvedimenti viene alla luce quanto fosse diffusa la pubblicazione e la fruizione di testi devozionali ad ogni livello sociale. L’offensiva lanciata con la redazione degli Indici ebbe pertanto pesanti ripercussioni sul piano culturale: infatti da un lato la lettura ad alta voce dei testi in volgare – una fonte primaria di alfabetizzazione – venne privata di quella risorsa; dall’altro venne inaridita la vena di autrici che nel corso del Cinquecento avevano contribuito allo sviluppo della letteratura italiana. Non è un caso quindi che le principali resistenze ai divieti venissero dal mondo femminile, dai ceti meno secolarizzati e dal monachesimo femminile, proprio per il rapporto intimo instauratosi con i libri. La politica censoria portò all’affermazione di caratteri peculiari della religione del nostro paese: una religione che ha privilegiato la precettistica morale e comportamentale, sottraendo volutamente alla discussione dei laici le grandi domande teologiche, la ricerca analitica sui testi sacri, il rischio delle scelte morali e la responsabilità dell’individuo nei confronti della società. Gli organismi repressivi romani non esercitarono solo una stringente vigilanza sulle traduzioni dei testi biblici, ma operarono a tutto campo. Si volle, riuscendovi, creare un clima di incertezza del diritto che avrebbe consegnato lettori e autori all’arbitrio dei giudici locali e centrali, clima che avrebbe nuociuto, nel lungo termine, alla maturazione intellettuale, culturale e civile della penisola. La pretesa di difendere l’uso della sola lingua latina per la lettura e la predicazione dei testi sacri, conclude Fragnito, finì per soffocare l’esigenza di sviluppare una piena e consapevole partecipazione individuale del fedele alle varie forme della vita religiosa.