È superiore la vita attiva o quella contemplativa? Come deve configurarsi il rapporto fra potere e intellettuale? Qual è la migliore forma di governo? Come individuare l’ottimo reggitore? Può esistere un principe davvero felice? In che misura la fortuna influisce sull’esistenza dell’uomo virtuoso? Nell’ampia ricognizione della letteratura politica italiana del XV secolo offerta in questo libro, Canfora lascia spesso la parola direttamente agli umanisti per documentare le risposte più originali e significative date in epoca primo-rinascimentale a queste e ad altre domande cruciali. Concentrandosi in special modo sulle realtà milanese, fiorentina e napoletana, egli fornisce poi interessanti ragguagli sulla presenza negli scritti del tempo di espliciti richiami alle figure, alle valutazioni e alle scelte personali di illustri glorie italiche recenti, il che lo porta a mettere in rilievo come numerosi autori quattrocenteschi non esitino a manipolare ad hoc le concezioni di un Dante o di un Petrarca al fine non soltanto di assicurare a sé una così nobile parentela intellettuale, ma anche di ingraziarsi i munifici governanti della città ove essi operano. Lo studioso si sofferma anche su alcuni importanti casi di riuso delle fonti antiche da parte degli umanisti, a cominciare dai fortunati miti storiografici di Scipione, considerato il sommo alfiere della tradizione repubblicana, e di Cesare, l’emblema del governo monarchico. L’indagine di Canfora mostra come alla letteratura dell’Umanesimo ‘civile’, di tendenza repubblicana e sviluppatasi nel primo trentennio del secolo soprattutto a Firenze, subentri via via – pressoché ovunque – una letteratura cortigiana che ruota in modo ‘personalistico’ intorno ai signori e che trova nelle loro dimore la dimensione più naturale. Il mutamento del clima politico determina, da una parte, il progressivo evaporare degli effettivi spazi di libertà garantiti dal potere al singolo e alla cultura; dall’altra, una generale inclinazione dei letterati a cedere – con sempre maggiore arrendevolezza – alle lusinghe del privato. Questa vera e propria crisi epocale contribuisce a promuovere – in Italia – un plurisecolare svilimento delle forme d’impegno ‘civile’. Degradato a semplice cortigiano affatto estraneo alle complesse dinamiche della vita ‘attiva’, l’intellettuale – da questo momento in poi – deve accontentarsi di un’autonomia d’azione piuttosto limitata: gli è consentito – al massimo – di vestire i panni dell’“educatore” o del consigliere del principe; non di rado, peraltro, egli si riduce a adempiere esclusivamente ad una mera funzione consolatoria delle coscienze.