In un tornante epocale nel quale la prassi giudiziaria e la riflessione filosofica si rivolgono al paradigma della giustizia riconciliativa come via d'uscita da eventi politici che hanno determinato traumi collettivi, questo libro di ricostruzione storica ci avverte che anche il perdono, come ogni sentimento, ha una storia di trasformazioni. Nel contesto dell'Italia tra la fine del Medioevo e la prima età moderna la prassi giudiziaria era caratterizzata da concetti di origine religiosa come "grazia", "pace" e "perdono", secondo una distinzione tra «giustizia negoziata» e «giustizia egemonica» (cioè esercitata esclusivamente dal sovrano per via penale) che sarà messa in discussione solo dall'affermazione dell'ideologia retribuzionistica illuministica. Il territorio della negoziazione giuridica – cioè delle forme di riconciliazione disponibili prima o a lato della procedura giudiziaria in un tribunale ecclesiastico o civile – era ampio e largamente battuto, come questa ricerca attesta attraverso approfonditi sondaggi condotti prevalentemente nell'archivio del Tribunale criminale bolognese del Torrone. Emergono in particolare tre pratiche, la cui caratteristica era quella di valere come veri e propri istituti giuridici, consolidati fin dall'età comunale. Il primo è quello della «rinuncia» della parte lesa a perseguire il reo, di solito dietro compenso e mediante la redazione di documenti scritti, raramente atti notarili, spesso dichiarazioni del rinunciatario, quasi sempre tramite la mediazione di personaggi investiti socialmente di questo ruolo. Il secondo istituto è quello della «pace», uno strumento utilizzato per porre termine alle faide e che si caratterizzava per avere di mira in modo più evidente il bene della collettività. Infine il «perdono», pratica diffusa e sostenuta soprattutto dai missionari gesuiti: nel contesto storico in esame il perdono non riguardava una semplice disposizione d'animo, ma si incarnava in atti effettivamente rilasciati e sottoscritti, all'interno di una specifica prassi giudiziaria. Queste diverse forme testimoniano la penetrazione di elementi teologici nell'amministrazione giudiziaria e mostrano una concezione della giustizia in cui operava attivamente il concetto di grazia inteso come apporto soprannumerario, modalità in cui la relazione tra Dio e gli uomini circolava anche all'interno della città. Si tratta, secondo l'autrice, di un percorso all'interno di una visione arcaica della giustizia, di cui questi istituti sono «fossili guida», che al giorno d'oggi può continuare a valere come forma interiore di purificazione, ma non più come disponibilità della società nel suo complesso a rinunciare alla legittima punizione.