In un volume pubblicato in Francia nel 2004, La traversèe des frontières (e tradotto in italiano l’anno successivo per Raffaello Cortina con il titolo Senza frontiere), il grecista francese Jean-Pierre Vernant racconta un episodio che l’aveva riguardato nei tragici anni della seconda guerra mondiale. La vicenda ruota attorno a due lettere che Vernant aveva ricevuto nella primavera del 1944, mentre insegnava filosofia al Lycée Pierre-de-Fermat di Tolosa: nella prima, indirizzata a «Monsieur Vernand» e di autore incerto, lo si avvertiva che sarebbe stato presto destituito dal suo ruolo di docente, alludendo alla sua militanza politica e alla sua partecipazione alla Resistenza; nella seconda, indirizzata a «Monsieur Vernan» e firmata Pujol, lo si invitava a diffidare dell’ispettore generale e del preside del Liceo, rei di tradirlo. Di fronte a questi avvertimenti, Vernant decideva di darsi alla macchia. In realtà, però, la sua espulsione dall’istituto scolastico nel quale insegnava non fu mai ratificata ufficialmente, tanto che alla fine della guerra non dovette essere reintegrato nel suo ruolo.
Che cosa era successo, dunque? Perché la macchina inquisitoria e persecutoria contro di lui si era all’improvviso fermata? Attraverso una ricerca negli archivi da lui stesso condotta, Vernant arrivò a scoprire che l’equivoco nasceva da uno scambio di persona, o meglio dalla sovrapposizione tra due figure diverse, lui e il fratello Jacques, anch’egli professore di filosofia, ma in un Liceo di Clermont. Coloro che si erano occupati di vigilare sulle mosse e sugli spostamenti dei fratelli Vernant e di tenerne traccia, avevano creduto a un certo punto che Jean-Pierre e Jacques fossero la stessa persona: un malinteso che aveva rallentato e infine ostacolato la loro stessa azione. La conclusione che ne traeva Vernant andava ben oltre il suo caso specifico: «Per distinguere il vero dal falso in questo guazzabuglio di testi ufficiali», scriveva, «è necessario essere stato personalmente il testimone vivente di quegli stessi fatti di cui essi, in teoria, dovrebbero fornire per iscritto il verbale più preciso e obiettivo». Ecco, dunque, un episodio in cui le fonti storiche acquistano un nuovo significato grazie al contributo del testimone (che, in questa circostanza, è anche uno storico).
I complessi rapporti tra storia, memoria e testimonianza sono al centro anche del volume di Silvia Ferrari, che per indagarli assume come osservatorio di indagine l’opera di Primo Levi. Il libro di Ferrari si articola in due sezioni, intitolate rispettivamente La preistoria della testimonianza e L’era della testimonianza, con un evidente richiamo al fondamentale testo di Annette Wieviorka, L’era del testimone. In primo luogo, Ferrari prende in esame lo statuto della testimonianza e la sua funzione conoscitiva, analizzandone le implicazioni in campo filosofico (dalla fenomenologia all’ermeneutica, dallo strutturalismo al decostruzionismo) e storiografico e ponendone in evidenza le relazioni con il racconto di finzione, l’autobiografia e il concetto di prova. Dopo aver svolto un’approfondita indagine sull’uso dei termini “Olocausto”, “Shoah”, “genocidio” ed “Auschwitz” per indicare il massacro perpetrato dai nazisti contro gli ebrei, Ferrari segue le tracce della storia delle testimonianze concentrazionarie dalle origini fino agli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, dedicando particolare attenzione alla galassia della memorialistica redatta da donne (il volume si concentra, oltre che su Etty Hillesum e Anne Frank, anche su alcune deportate italiane, come Liana Millu, Giuliana Tedeschi, Luciana Nissim).
Ferrari si sofferma, quindi, sul ruolo della deutero-testimonianza, ovvero della narrazione “plurale” – che talvolta assume la forma del dialogo e della conversazione – dell’esperienza nei campi. Proprio su tale espediente si fonda il Rapporto in cui nel 1945 Levi e Leonardo De Benedetti descrivono il funzionamento dei servizi sanitari del campo di Monowitz. La deutero-testimonianza torna poi a svolgere un ruolo centrale sia nel capitolo diciassettesimo di Se questo è un uomo, intitolato Storia di dieci giorni, sia nella Tregua. Secondo Ferrari, l’importanza di questo stratagemma narrativo nella produzione di Levi è spiegabile alla luce di due ragioni principali: anzitutto il riferimento al principio giuridico secondo il quale testis unus, testis nullus, principio a cui si ispirano i primi testi memorialistici; in secondo luogo, l’intenzione di Levi di privilegiare non la soggettività e la singolarità dello sguardo, ma la capacità che hanno prospettive diverse di convergere in un punto comune. Tuttavia, la rilevanza riconosciuta alla deutero-testimonianza andrà progressivamente affievolendosi nell’opera leviana, fino a scomparire del tutto nell’ultimo suo scritto, I sommersi e i salvati (1986), a conferma dell’approdo a un’idea di testimonianza ben diversa rispetto al passato. Il testimone dei campi non può più essere identificato con il superstite, ma deve esserlo con il «musulmano». Nei Sommersi e i salvati, infatti, Levi opera una distinzione – che si potrebbe definire di ordine “etico” – tra due gruppi di testimoni: da un lato, i «testimoni veri» e «integrali», i «musulmani» appunto, che hanno visto l’orrore della Gorgone e che per questo sono stati privati della possibilità di raccontare la loro esperienza; dall’altro lato, «i sopravvissuti», che «per la loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo». Quasi per paradosso, solo la testimonianza dei primi può considerarsi integrale, mentre quella dei secondi non può che essere parziale. Come mostra Ferrari, questo slittamento nel modo di intendere la testimonianza non appartiene soltanto a Levi, ma deve essere letto, in modo più generale, alla luce della cesura determinata nel 1961 dalla celebrazione del processo Eichmann, alla cui analisi viene dedicato ampio spazio nel volume.
Da allora in avanti, l’essere sopravvissuti non è più ritenuto un criterio sufficiente per garantire il valore della testimonianza: si apre così il campo a questioni di ampia portata, tra le quali la possibilità stessa di fornire una rappresentazione di ciò che è stato. Qual è, allora, lo spazio che può essere attribuito e riconosciuto alla testimonianza? Qual è il modo in cui essa può essere più opportunamente espressa: il dialogo? Il soliloquio? O addirittura deve essere confinata nel silenzio? Un problema che non riguarda evidentemente solo le testimonianze rese in forma scritta, ma anche la memoria trasmessa oralmente e soprattutto quella veicolata per mezzo dalle immagini. Si pensi soltanto ai dibattiti suscitati da Shoah, l’imponente documentario realizzato nel 1985 da Claude Lanzmann, o da Mémoire des camps, la mostra fotografica allestita nel 2001 a Parigi, in cui erano esposte al pubblico anche quattro immagini scattate ad Auschwitz da uno dei membri del Sonderkommando. Episodi che, ci ricorda Silvia Ferrari, mostrano quanto siano articolati e tutt’altro che risolti i rapporti tra storia e memoria.