Sono ormai lontani i tempi in cui il nome di Niccolò Machiavelli era sinonimo del diavolo – che nella commedia elisabettiana veniva chiamato proprio “old Nick” – ma i pregiudizi e le leggende sono resistenti a morire, tanto che l’aggettivo “machiavellico” è ancora utilizzato per indicare astuzie e immoralità che si realizzano nel campo della politica. Nonostante ciò, da decenni la letteratura critica – da Sasso a Bertelli, da Procacci a Martelli, da Pocock a Skinner – ha individuato in Machiavelli il difensore delle virtù civiche e del repubblicanesimo, oltre che il sostenitore dell’autonomia della politica, il fondatore della filosofia politica moderna e il rinnovatore del metodo storiografico. Ma Machiavelli è anche altro, in particolare un uomo che vive l’età dell’Umanesimo e del Rinascimento come un’epoca di inquietudini e di rivolgimenti nella quale, di fronte a problemi nuovi (la crisi italiana del Cinquecento), devono essere escogitate soluzioni nuove, straordinarie, eccezionali. È questo il punto di partenza di Michele Ciliberto che, nel volume Niccolò Machiavelli: ragione e pazzia (Laterza), presenta il Segretario fiorentino immerso nella cultura del suo tempo e tuttavia capace di offrire – soprattutto nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio e nelle Istorie fiorentine – un’immortale lezione di agire politico che non può essere confinata nell’angusta alternativa tra idealismo e realismo.
Il problema non è quello di individuare in Machiavelli un cinico sostenitore della ragion di Stato o, al contrario, un difensore della libertà dei popoli, ma colui che vede nella politica il terreno di elezione per pensare la complessità e i limiti della condizione umana nella sua concretezza storica. In questa direzione Ciliberto coglie la cifra umana e intellettuale del Segretario fiorentino nella sua commistione tra ragione e “pazzia”, tra la sua analisi razionale della realtà e il suo slancio visionario nell’anticipare i tempi e prefigurare scenari futuri: il pensiero di Machiavelli non è caratterizzato dalla razionalità formale tipica della filosofia moderna e della scienza politica, ma dal carattere ambivalente e contraddittorio di un “realista utopico” che immagina nuovi mondi fornendo strumenti concettuali per realizzarli. La “pazzia”, cioè la capacità immaginativa e visionaria, è al servizio della ragione, cioè della capacità analitica e pragmatica, e viceversa: la politica è ragione e, allo stesso tempo, è “pazzia”, intesa come capacità di contrapporsi alle opinioni comuni e di lottare per superare la decadenza, affermando nuovi ordini. Nella vita politica il desiderio convive dunque con il limite, la forza con la fragilità, la virtù con la fortuna, l’ordine con il conflitto, la crisi con la speranza, il disincanto con l’utopia, la commedia con la tragedia.
Tratto distintivo della vita e dell’opera del Segretario fiorentino è l’attenzione all’agire concreto degli uomini, inserito all’interno di una più generale concezione della storia intesa come ciclo dell’accadere che sempre si rinnova, a metà tra libertà e necessità, e che rende impossibile pensare la realtà come prodotto di un percorso lineare e uniforme: la prassi è produzione sempre nuova di idee e decisioni, non svincolate dalla conoscenza ed esposte a una continua variazione che può mettere ordine, nella storia, solo provvisoriamente. Ciliberto sottolinea così che in Machiavelli la politica è lo spazio privilegiato d’azione nel quale l’uomo – consapevole dei suoi limiti ontologici e dei vincoli dettati dai dati storici e naturali – può incidere sulla realtà, ovviamente senza alcuna garanzia di successo: la politica non è equilibrio, non è mediazione, bensì pensiero “per contrari” che tiene insieme ragione e utopia, realismo e immaginazione. Nell’agire politico è senza dubbio necessario assumere un punto di vista realistico in grado di analizzare rigorosamente i rapporti di forza, evitando ogni infantile velleità, ma allo stesso modo è necessario – per far nascere un mondo nuovo in un’epoca di crisi – sviluppare la tensione verso nuovi modi e ordini attraverso la passione della “pazzia”: «Il riconoscimento della necessità di azioni audaci, inusitate, strane – cioè pazze, eccessive – scaturisce dalla consapevolezza dei limiti della ragione, della prudenza, dell’esperienza, quando le cose sono mutate e variate in maniera tanto profonda da non consentire di procedere secondo criteri ordinari, normali». Se “il tempo è fuor di sesto” – come recita l’Amleto di Shakespeare – solo una saggia mistura di ragione e utopia è in grado di risolvere una crisi politica. Non solo quella del Rinascimento: anche quella attuale.