L'approccio sociologico tradizionale all'Olocausto ha, per così dire, trascurato l'importanza che questo doloroso evento della storia contemporanea riveste per la sociologia come teoria della civiltà moderna. Questo volume intende rinnovare la ricerca sociologica integrando "la lezione dell'Olocausto nel filone principale della (…) teoria della modernità, del processo di civilizzazione e dei suoi effetti" (p. 15). Bauman si domanda se sia legittimo considerare l'Olocausto semplicemente come un "avvenimento della storia ebraica" e, in quanto tale, sociologicamente irrilevante; o, ancora, se lo si possa liquidare definendo una "predisposizione originaria e culturalmente insopprimibile della specie umana" (p. 18), che la società moderna tende a reprimere con ogni sforzo. Il carattere non violento della civiltà moderna, in realtà, non è altro che un'illusione facente parte della sua 'autoapologia' e della sua 'autopoiesi'. L'esecuzione del progetto della "soluzione finale" infatti non venne mai in conflitto con la razionalità propria della modernità. Al contrario "essa scaturì da una preoccupazione genuinamente razionale e fu generata da una burocrazia fedele alla propria forma e al proprio scopo" (p. 37). La burocrazia, estranea ad ogni riferimento a norme etiche e a giudizi morali, è "intrinsecamente capace di compiere un'azione di genocidio" (p. 153), ma, per essere efficace in questo senso, deve combinarsi con il progetto di un ordine sociale migliore e più razionale, con la capacità di tracciare il progetto stesso e la determinazione a realizzarlo" (p. 153). La combinazione di queste 'invenzioni della modenità' ha reso possibile lo sterminio degli ebrei. L'Olocausto dunque rappresenta "un test affidabile delle possibilità occulte insite nella società moderna" (p. 30), le cui istituzioni non sono ancora superate e, per ciò stesso, non è superata nemmeno la possibilità dell' "omicidio di massa". Bauman, in questo studio, intende quindi dare un contributo alla comprensione e alla scoperta di quanto sia probabile o meno il ritorno dello sterminio, sottolineando l'esigenza di "immaginare l'inimmaginabile" (p. 127).