Uscita due anni fa in Francia, è stata ora opportunamente tradotta in Italia l’ultima lezione che Raymond Aron tenne al Collège de France. Era il 4 aprile 1978. Il discorso, di cui si era persa la registrazione ma conservato un dattiloscritto, torna oggi all’attenzione del lettore grazie alle cure di Pierre Manent e Giulio De Ligio. Pur essendo molto diverso il contesto storico, politico e culturale, la riflessione del pensatore francese conserva ancora freschezza e interesse. A dispetto del titolo, però, la lezione di Aron si concentra sulla libertà e sembra intendere che per uguaglianza si debba considerare l’estensione potenzialmente erga omnes delle libertà, variamente declinate. Infatti Aron precisa anzitutto che di libertà al plurale egli intende parlare. Si può godere di un maggiore o minore numero e grado di libertà, a seconda di come sono politicamente rette le società nelle quali ci troviamo a vivere. Solo all’interno di una società organizzata è comunque possibile fruire delle libertà, tante o poche esse siano. Quattro sono le categorie di libertà che vengono passate in rassegna, muovendosi su un piano sia concettuale-astratto sia pratico-concreto. Si tratta, rispettivamente, della sicurezza o protezione degli individui; della libertà di circolazione; della libertà economica e della libertà religiosa, ovvero di opinione, espressione e comunicazione. In altri termini, sono le libertà personali, politiche e sociali.
Libertà tanto "imperfette" (p. 38) quanto preziose sia dal punto di vista simbolico sia da quello pratico. Simbolico perché, ad esempio, "il diritto di voto consacra per così dire l’uguaglianza di tutti gli individui, nonostante tutte le disuguaglianze, rispetto a qualcosa che è in sé essenziale, cioè la scelta dei governi" (p. 42). Le procedure non sono soltanto forma e un effetto sia protettivo sia proiettivo lo producono: "si prevengono o correggono molte violenze e ingiustizie che affliggono le società che ignorano queste procedure" (ibid.). Resta comunque vero che "l’atto elettorale o la procedura parlamentare non offre necessariamente al popolo la sensazione di governarsi da sé" (p. 43). Bisogna però allora che esista pure un’esigenza intima e diffusa all’esercizio dell’autogoverno. È questa che prende il nome di "virtù politica", concetto caro al pensatore francese.
L’educazione alla virtù politica così strettamente intesa risulta particolarmente importante, tenuto conto che le libertà nelle democrazie liberali si definiscono in un rapporto ambivalente con lo Stato, grazie a esso e contro di esso al contempo. Per secoli le libertà degli individui "sono state concepite come forme di resistenza agli abusi dello Stato, come limiti alla sua onnipotenza" (p. 44), ma contemporaneamente, e specialmente in concomitanza con l’emergere delle prime forme embrionali di welfare, si sono chieste alle istituzioni pubbliche la garanzia e la tutela di alcune delle nostre libertà. A dimostrazione che le democrazie liberali vivono di un delicato composto che si rivela e mantiene vigente e vitale se persiste l’equilibrio fra opposte esigenze. E solo in questo equilibrio di contrasti le libertà prosperano nella loro molteplicità e diversità.
Aron affronta inoltre un paio di questioni strettamente connesse fra loro e decisive per il consolidamento o meno di un sistema politico, qualunque esso sia, e, nello specifico, di un sistema rappresentativo liberale e democratico. Anzitutto, la questione del "sentimento" della libertà, della percezione e coscienza che si ha della propria condizione personale all’interno della società in cui si vive. Aron parla a fine anni Settanta e parla in una Francia, e più in generale in un’Europa occidentale, che è ancora fresca reduce dalla contestazione studentesca del ’68 e dintorni. Dunque Aron poteva a buon diritto sostenere nel 1978 che "in una società come quella di cui descrivo i principi, molti individui sentono di non essere liberi" (p. 45). Una sensazione che poteva anche corrispondere a realtà per quelle categorie che effettivamente vivevano in circostanze materiali di penuria e privazione. Ad Aron preme però sottolineare come sia altrettanto determinante in questo sentimento negativo, in questa coscienza di assenza e/o privazione di libertà, l’ideologia di cui si nutre il cittadino. Questo perché, ed è la notazione filosofico-politica più interessante del ragionamento che qui svolge lo studioso francese, "la coscienza della libertà non si separa dalla coscienza della legittimità della società" (p. 46). E si può ritenere una società legittima o meno non solo sulla base di quel che concretamente ti concede o sottrae, ma anche sulla base della "rappresentazione della buona società". Se questa rappresentazione, questo ideale non coincide con i principi che animano la società in cui vivi, puoi ritenerti oppresso anche se, nei fatti, le tue libertà, civili, politiche e sociali, non sono conculcate dal sistema di autorità.
Aron sa bene, e lo esplicita, di aver voluto parlare in questa sua ultima lezione della libertà degli individui in una comunità politica. Esiste però la libertà collettiva, di un gruppo, anche interno a uno Stato nazionale, libertà a cui si aspira come alla vera e unica che sia degna di tal nome. Nell’antichità greca, addirittura, il gruppo in riferimento al quale si considerava effettiva la fruizione della libertà era solo e soltanto l’intera polis stessa, la città-comunità nel suo insieme. Ovviamente non tutti i suoi componenti erano gli effettivi fruitori della libertà, ma quest’ultima era tale se coincideva con la partecipazione quotidiana e attiva di tutti i titolari di questa libertà, i polítes, coloro che possiedono la politike arete. D’altronde, in questa sua ultima lezione, Aron ha voluto presentare e analizzare un elenco di libertà storicamente determinate, situate in un contesto che è quello delle società nelle quali egli viveva, e ancora noi viviamo. Senza negare il potenziale universale di queste libertà, ad Aron premeva ricordare come la nostra civiltà europea sia giunta prima a pensare e infine, dopo lungo travaglio, a erigere società in cui si "protegge e addirittura incoraggia la libera attività di ognuno" (p. 48). Almeno a livello di principi costituzionalmente sanciti e dunque agibili, viviamo a tutt’oggi in "società relativamente prospere e con una profonda tradizione di ricerca della libertà nell’uguaglianza o dell’uguaglianza nella libertà" (p. 69). Il liberalismo di cui Aron si fa portavoce è definito dal riconoscimento di "un pluralismo di libertà e di poteri" (p. 61), che egli non si nasconde quanto facilmente possa essere intaccato e manomesso dal permanere o riemergere di meccanismi autoritari e sperequativi "nella vita professionale ed economica" (ibid.). Se oggi non sussistono più le specifiche forme di rifiuto totale e radicale presenti negli anni Settanta, ciò non toglie che la disaffezione nei confronti dei sistemi liberal-democratici occidentali sia ancora elevata, forse anche di più, nonché alimentata da nuove, inedite sfide.
Aron non esita ad affermare che "le nostre società, di cui noi critichiamo giustamente le imperfezioni, rappresentano oggi, rispetto alla maggior parte delle società del mondo, una felice eccezione" (p. 70). Ciò non vuol dire che il "nostro modello" debba essere seguito da tutte le società del resto dell’umanità, né tanto meno imposto con la forza. Niente esportazione della democrazia, insomma. Ad Aron preme concludere con il seguente monito: "non dobbiamo mai dimenticare, nella misura in cui amiamo le libertà o la libertà, che godiamo di un privilegio raro nella storia e raro nello spazio" (ibid.). Appunto: "nella misura in cui amiamo le libertà". Proprio da questo dipende anche, se non soprattutto, il futuro delle nostre democrazie.