Il controverso volume di Mancuso ripercorre e rilegge alcuni dei dogmi fondamentali della Chiesa cattolica (l’immortalità dell’anima, il peccato originale, la resurrezione dei morti, la dannazione eterna) e rivolge in particolare la sua attenzione alla «nebbia concettuale» che avvolge il pensiero quando si deve pensare all’anima separata dal corpo, al luogo nel quale essa si dirige dopo la morte corporale.
Per questo motivo l’autore propone una nuova impostazione teologica che possa diventare «universale», cioè un discorso su Dio e la nostra reale relazione con lui da condurre a partire dai dati della ragione, qui intesa nel senso speculativo di intelletto e coscienza morale, secondo cui è vero anche ciò che non si può direttamente verificare, ma che per la sua intrinseca bellezza morale muove e riempie la nostra vita. Recuperando liberamente diverse dottrine "eterodosse" dell’anima e della creazione e riappropriandosi della loro terminologia, l’autore sostiene che essa viene dal mondo, cioè solo indirettamente da Dio, e che conduce, se attuata in tutte le sue potenzialità, direttamente a Dio.
Così la nascita dell’anima viene qui ricondotta al corpo e alla generazione umana che ad esso dà origine, ipotizzando così anche una possibile conciliazione tra il discorso teologico e i discorsi delle scienze. Solo dall’educazione dell’anima sensitiva (la dimensione psichica) si possono sviluppare prima l’anima razionale, poi l’anima spirituale e infine l’anima spirituale liberamente orientata al bene.
Soltanto a questo livello, il livello dell’anima di grazia, si deve pensare a un intervento diretto di Dio.
Tutti gli uomini sono dotati di un’anima per il fatto stesso di essere vivi, ma non in tutti questa anima è come spirito, non tutti entrano nella dimensione dello spirito, dove si entra soltanto in seguito a un lavoro che richiede tempo e alcune condizioni. Per questo motivo Mancuso è portato a rielaborare il dogma del peccato originale, negando che l’anima possa essere corrotta, perché è stata creata da Dio come partecipe della sua natura immortale. Il corrispondente testo del Genesi deve pertanto venire interpretato come smarrimento dell’anima nel mondo, amarezza della condizione umana e sua necessità di essere salvata. La morte dell’anima è quindi una stato di indifferenza rispetto al bene e alla giustizia: è proprio della condizione umana vivere una libertà imperfetta e corrotta, che per questo motivo ha bisogno di essere disciplinata, educata, salvata. La salvezza dell’anima dipende dalla riproduzione a livello interiore della logica ordinatrice che è il principio divino del mondo, imponendo un ripensamento complessivo del tema della creazione.