Nonostante l’interesse con cui sono stati accolti nel corso degli ultimi anni gli studi in materia, le pubblicazioni dedicate alla qabbalah nel panorama editoriale italiano sono ancora piuttosto rare. A maggior ragione è quindi particolarmente benvenuto il testo di Maurizio Mottolese, attento al confronto con le più recenti posizioni storiografiche. Più che il tentativo di ricostruire storicamente il profilo intellettuale di Bahya ben Ašer, uno dei più popolari cabalisti catalani del XIII secolo, il lavoro di Mottolese è un’indagine intorno agli elementi cabalistici presenti nel suo Commento alla Torah e alla loro collocazione all’interno di un più generale discorso sul misticismo ebraico medievale. La prima parte del libro è dedicata a problemi di tipo ermeneutico. L’interpretazione cabalistica utilizzata da Bahya viene esaminata da Mottolese alla luce delle altre componenti dell’esegesi ebraica (letterale, midrašica e soprattutto filosofica) ugualmente presenti nel Commento. Ne emerge un quadro complesso in cui il significato dei diversi livelli esegetici ed il loro costituirsi in un ordine gerarchico, anziché essere stabilito in maniera definitiva e sistematica, viene rimodulato più volte da Bahya nel corso del testo, rivelando tensioni e oscillazioni che diventano particolarmente evidenti nel caso del rapporto tra l’approccio filosofico e quello cabalistico alla Scrittura. Alla via cabalistica Bahya assegna comunque un primato interpretativo, in quanto è la sola in grado di accedere ai contenuti più propriamente teosofici celati nella Scrittura. La seconda parte del libro di Mottolese consiste nell’analisi di questi contenuti e ci restituisce l’immagine affascinante – e per molti versi estranea alla teologia e alla mistica occidentali – di un mondo divino attraversato da crisi e fratture interne, la cui unità sempre precaria si rinforza o si indebolisce anche in base all’operato umano: riprendendo concezioni teurgiche e teopatiche già presenti nella tradizione rabbinica, Bahya rende infatti l’uomo corresponsabile della perfezione di Dio. L’esegesi polisemica adottata nel Commento riflette quindi a livello ermeneutico la mutevolezza e l’instabilità di questa realtà divina. A questa concezione del divino corrisponde sul piano dell’esperienza religiosa – cui è dedicata l’ultima sezione del libro – una “ri-significazione” della prassi religiosa ebraica. In opposizione alla lettura di Maimonide, Bahya rifiuta di spiegare razionalmente il senso dei precetti e attribuisce alla loro attuazione un’efficacia teurgica, recuperando così quegli elementi mitici che l’allegoresi filosofica cercava di espellere.