Pubblicati nell’arco di quasi un quarantennio, tra il 1970 e il 2009, gli articoli e i saggi riuniti nel volume di Diego Lanza spaziano dall’evoluzione dell’antichistica tedesca all’influenza della filosofia hegeliana sull’opera di Bruno Snell, dall’analisi del personaggio di Serenus Zeitblom nel Doktor Faustus di Thomas Mann all’interpretazione del mito greco in Jean-Pierre Vernant. A fare da filo conduttore è la convinzione che il filologo debba confrontarsi non solo con il mondo antico e le sue forme molteplici, ma anche, e forse soprattutto, con gli studiosi con lo hanno preceduto e ne hanno condizionato il metodo di ricerca. Anche per questo motivo è forse utile concentrarsi sui tre saggi iniziali, dedicati ad alcuni tra i principali rappresentanti della filologia classica, Friedrich August Wolf, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff e Werner Jaeger, la cui storia inevitabilmente si intreccia con quella della nazione tedesca e delle sue istituzioni.
Nel saggio in apertura del volume Lanza analizza il «progetto filologico-pedagogico» di Wolf, che si basa sul tentativo di fondare una «scienza dell’antichità», inserendola nel sistema scolastico e universitario prussiano, alla cui edificazione lui stesso aveva contribuito con il Seminarium philologicum di Halle. Agli occhi dell’autore, l’impresa di Wolf appare carica di quelle ambiguità di cui l’Esposizione della scienza dell’antichità secondo concetto, estensione, scopo e valore del 1807 è un buon esempio. Da una parte, in accordo con l’enciclopedismo settecentesco, l’Esposizione si presenta come una rassegna delle discipline utili allo studio del mondo antico; dall’altra, in contrasto con il pluralismo filologico illuminista, Wolf pone queste discipline in un rapporto gerarchico, assegnando il primato alla lingua scritta o meglio alla «grammatica filosofica». In tal modo la mitologia, l’archeologia e l’epigrafia passano inevitabilmente in secondo piano. Nell’opera, nota Lanza, l’eredità illuministica di Lessing è costretta a coesistere con la fedeltà alle istituzioni dello Stato assoluto prussiano, di cui proprio Lessing era stato un critico acceso. In contrasto con l’aspirazione cosmopolitica che ancora animava il suo maestro Christian Gottlob Heyne, Wolf intende, infatti, "germanizzare" la filologia classica, come è evidente fin dalla dedica a Goethe, in cui si sottolinea l’affinità tra i greci antichi e i tedeschi. Per Wolf il mondo antico finisce con l’identificarsi con il mondo greco-romano: restano escluse la cultura ebraica e quella orientale in genere. La filologia wolfiana appare dunque al servizio tanto del nazionalismo tedesco quanto della formazione di filologi «chiamati ad amministrare, se non a governare un sapere suddito del potere assoluto».
L’ambiguo rapporto tra la filologia tedesca e il potere politico è al centro anche del secondo saggio della raccolta. Secondo Lanza le critiche di Wilamowitz a Nietzsche non si prefiggono soltanto di mostrare l’infondatezza e l’antiscientificità delle tesi avanzate nella Nascita della tragedia, ma anche di difendere l’università tedesca in quanto istituzione capace di garantire la formazione completa dell’individuo e del buon suddito. Al pari di Nietzsche, anche Wilamowitz rifiuta l’eccessiva specializzazione del lavoro intellettuale e la parzialità che caratterizza le scienze della natura; a differenza di Nietzsche, però, è convinto che la filologia sia l’ultimo baluardo contro la frammentazione del sapere, perché scienza vera e unitaria, oltre che efficace strumento educativo. D’altra parte, mentre Nietzsche condanna il filisteismo degli intellettuali tedeschi e la loro subordinazione al potere, Wilamowitz è e si considera un funzionario dello Stato prussiano, perfettamente integrato nelle maglie del potere. È animato dalla convinzione che l’antica Grecia non sia relegata in un passato mitico, ma possa rivivere negli studi degli antichisti: è per questo che, secondo Lanza, Wilamowitz tende a proiettare sull’Atene del quinto secolo il sistema ideologico della Germania guglielmina.
Allievo di Wilamowitz e suo successore a Berlino fu Werner Jaeger, a cui è dedicato il terzo saggio del libro. Ciò che sta più a cuore a Jaeger, nota l’autore, è la continuità della Chiesa come istituzione: da qui discende anche il particolare interesse per i Padri cappadoci, che riuscirono a garantirne non solo la sopravvivenza, ma anche l’integrazione nell’establishment politico-istituzionale dell’impero romano grazie all’apertura alla cultura greca. Lanza si sofferma inoltre su due aspetti rilevanti della restaurazione umanistica di Jaeger: l’importanza riconosciuta all’università come «naturale guida della vita spirituale» e il tentativo di svincolare la filologia dall’ambito specialistico per considerarla invece come uno strumento utile alla trasmissione della tradizione classica e cristiana, vale a dire del patrimonio spirituale dell’Occidente. Proprio oggi che gli studiosi del mondo antico rischiano di essere marginalizzati sia per la loro eccessiva specializzazione, sia per l’incapacità di adattarsi ai criteri di produttività della società contemporanea, vale la pena secondo Lanza di interrogarsi sul loro ruolo sociale anche in una prospettiva storica.