I concetti chiave attorno a cui ruota quest’opera sono lo spaesamento, la frammentazione, il disorientamento e la narrazione come recupero del senso perduto. Studioso dei rapporti tra narrazione ed esperienza, Jedlowski prende le mosse dal famoso film Heimat del regista tedesco Edgar Reitz, serie di undici episodi che racconta la storia di una famiglia in Germania tra 1919 e 1982. A partire dagli eventi più traumatici del secolo trascorso, fra cui il nazismo e la Shoah, la storia di Heimat si intreccia con altri racconti del Novecento e con l’elaborazione originale di una sociologia della narrativa. Queste storie sono tuttavia quelle di «un’incapacità di narrarsi. A questa incapacità il film intende supplire. La dimora originaria viene riconfigurata attraverso il racconto» (p. 9). Tra i principali riferimenti filosofici del testo vi è la riflessione di Benjamin, in particolare per ciò che riguarda il rapporto tra esperienza e possibilità/impossibilità della comunicazione («atrofia dell’esperienza»): «l’irruzione di esperienze inaudibili, l’assenza della possibilità di socializzare il racconto, di trovare interlocutori in grado di accoglierlo, rende difficile, se non impossibile, l’elaborazione dell’esperienza stessa. Quello che resta è un trauma irrisolto. Dopo esperienze di estrema disintegrazione, il racconto reintegra. Non sempre raccontare libera dal passato: ma è almeno una strada per condividerlo» (p. 17). Che la narrativa abbia qualcosa di una dimora è la tesi del libro. La dimora originaria (il luogo natale, la patria, ciò a cui la parola "Heimat" rimanda e con cui il rapporto è incrinato) può infatti venire rideterminata e, almeno in parte, riconquistata attraverso il racconto. L’Autore mostra qui come l’esperienza non sia semplicemente quello che viviamo, ma «anche il processo che nella memoria connette i vissuti e li dota di senso» (p. 9): un processo che si giova del racconto e della presenza di destinatari per i quali narrare. Secondo quest’ottica, la narrazione può essere letta come una pratica relazionale. La ricerca di Jedlowski ha il pregio di esplorare questioni presenti nel dibattito pubblico; essa parla del desiderio di andarsene e di quello di ritornare; pone il problema di cosa significhi avere una patria; parla dei vissuti di numerose figure che a titolo diverso sperimentano sulla propria pelle l’incertezza del proprio appartenersi, quell’«oscurità dell’attimo vissuto» di cui parla Ernst Bloch, ovvero lo spaesamento e la Farnweh ("nostalgia dell’altrove"): migranti, rifugiati, espatriati, pendolari. «Per chi in modi diversi ha qualcosa di nomade, la narrativa è la dimora appropriata. A volte è l’unica che gli sia concessa. In ogni caso aiuta a non perdersi» (p. 10).