Durante la preparazione del suo primo libro, Laboratory Life. The Construction of Scientifics Facts, scritto nel 1979 (1986) in collaborazione con Steve Woolgar, Bruno Latour studiò l’attività di un importante istituto di neuroendocrinologia californiano e venne a contatto con le procedure, le consuetudini e le “strategie” – tecniche, politiche, economiche – della ricerca scientifica. Quest’indagine “sul campo” gli svelò due cose: in primo luogo, la sorprendente molteplicità di componenti umane e non-umane che si contendono la scena in laboratorio; in secondo luogo, l’ambiguità semantica del termine «fatto», capace contemporaneamente di rinviare, da un lato, a ciò che non deve la propria origine a null’altro che a se stesso e, dall’altro, a ciò che invece è in quanto risultato di un’azione ben precisa. Rifiutate le categorie proprie della sociologia classica (rapporti di potere, scontri di classe ecc.) perché considerate troppo “culturocentriche”, cioè figlie dell’asimmetria tra natura e cultura, Latour dette un’interpretazione semiotica al rapporto fra lo scienziato impegnato nella ricerca del «fatto» naturale e la “solida costruzione” del «fatto» scientifico, cui lo stesso scienziato fa riferimento ogni qual volta esibisce il risultato della propria scienza in azione. Le conclusioni dell’indagine dello studioso sono chiare: la scienza risulta ben lungi dal garantire la razionalità e il rigore metodologico, quindi anche l’oggettività assoluta. Nel volume qui segnalato, Il culto moderno dei fatticci, Latour ha approfondito – in chiave tanto epistemologica quanto antropologica – le nozioni di conoscenza e di credenza, il che l’ha indotto a confrontarsi con parole dal significato apparentemente antitetico come «fatto» e «feticcio». Anche se questi due termini sembrano rinviare – rispettivamente – alla realtà esterna e alle credenze del soggetto, occorre rilevare che «entrambi dissimulano […] il lavoro intenso di costruzione che permette la verità dei fatti come quella degli spiriti». Latour afferma che, al fine di liberare questa verità, è necessario accantonare sia le «elucubrazioni di un soggetto psicologico saturo di sogni» sia l’«esistenza esteriore degli oggetti freddi e astorici che cadrebbero nei laboratori come dal cielo». Per questo motivo, unite le fonti etimologiche di «fatto» e di «feticcio», egli ha proposto di chiamare “fatticcio” «la robusta certezza che permette alla pratica di passare all’azione senza mai credere alla differenza tra costruzione e raccoglimento, immanenza e trascendenza» (p. 66).