“Il linguaggio è l’orlo del mondo”: questa vertiginosa sintesi del pensiero di Wittgenstein indica le coordinate teoriche entro cui Sini sviluppa il problema della conoscenza. La trattazione è suddivisa in due parti: nella prima, “Enigmi del conoscere”, l’autore passa in rassegna l’epistemologia di Kant, di Peirce, di Einstein e di Putnam, per poi proporre un’accurata analisi del Cratilo di Platone. La teorizzazione del metodo genealogico chiude la sezione lasciando intravedere una possibilità, con suggestioni di Nietzsche e del “secondo” Wittgenstein, di sciogliere gli enigmi senza scivolare in irresolubili paradossi. Nella parte successiva, “Icone della scrittura”, lungo spazio è dedicato ad un’esposizione dell’opera di Kallir, a cui segue la comprensione genealogica della conoscenza e una teoria generale della verità: una compiuta Weltanschauung, senza pretese di definitività o assolutezza, eppure non esente dal rischio di un eccesso in metaphysics. Il rapporto di mente e mondo, argomenta Sini, nonostante gli innegabili successi delle scienze empiriche, è un rapporto concettualmente non garantito, privo di fondamento; né è possibile procedere se non assumendo come fondativo del rapporto mente-mondo il rapporto linguaggio-realtà, come nel Cratilo è intuito: col gesto platonico ha infatti inizio la scissione tra parole e cose. La pratica genealogica invece ci aiuta a intendere che “il mondo cammina dentro ai suoi segni”. In effetti il tentativo riflessivo della conoscenza di dare spiegazione di sé (la comprensione gnoseologica della conoscenza) è necessariamente aporetico. Tale tentativo da sempre pratica la distinzione tra mondo e mente, vi poggia come premessa del suo stesso argomentare e pertanto non può che riaffermarla: la soluzione sta invece nell’“inabissarsi verso l’origine della spaccatura”. Non epistemologia storica, dunque, che tiene salda la storia come momento assoluto, facendo perno su una soglia di comprensione in cui parola e cosa sono già distinti; ma “storicismo al quadrato” o genealogia che pensa il passato come produzione della nostra volontà di conoscere, non come oggettività, ma unità di oggettività e soggettività. Emerge così la verità dell’unità che precede la distinzione; verità né più né meno giusta delle altre, ma essa stessa frutto di una diversa soglia di comprensione. Rimane da chiedersi se la filosofia debba limitarsi a dissodare i presupposti metafisici delle pratiche conoscitive (o dei “giochi linguistici”), o procedere nella rigorosa analisi delle strutture e delle regole di quelle pratiche, pur ammettendo di abitarle già e da sempre.