Il volume di Cambiano non è, né vuole essere, l’ennesimo manuale di storia della filosofia antica, quanto piuttosto uno studio sul tema “che cosa significava essere filosofi nel mondo greco e romano”. Il termine “filosofo” compare nei testi di cui ancora oggi disponiamo solo a partire dal IV secolo a.C. La filosofia è intesa, a quel tempo, come un certo tipo di vita, per la precisione un certo tipo di bíos, che non è il semplice processo naturale, fisiologico, del vivere (zoé), ma “il modo di vivere”. Dunque, qualcosa da costruire, lavorando su di sé, costruendo il proprio sé, diremmo oggi. Ma non si tratta di un percorso che sfocia nella singolarità individualistica. Si tratta semmai di seguire una “dieta” (díaita), filosofica, ossia una condotta fondata su regole attinenti tanto all’alimentazione quanto all’esercizio fisico e spirituale. La stessa dialettica platonica è una forma di esercizio, una tecnica del discutere per brevi domande e risposte che ha come obiettivo non tanto la vittoria, sotto forma di persuasione e seduzione, nei confronti dell’interlocutore. Ciò è proprio del sofista, gran nemico di socratici, platonici, stoici, epicurei, ecc. Si tratta semmai di perseguire la catarsi, letteralmente “purga” o “purificazione”, tenendo conto che questa consiste nel trattenere il meglio ed espellere il peggio. Ginnastica e medicina favoriscono la catarsi del corpo, mentre politica e confutazione (élenchos) scacceranno rispettivamente l’ingiustizia e l’ignoranza. La filosofia per tutti coloro che non sono sofisti non può mai essere ridotta a professione o tecnica utilitaristica per ottenere qualcosa a danno di qualcuno. L’esercizio della filosofia implica per Platone costanti relazioni tra individui e presuppone una vita comunitaria che sia “stare insieme conversando dialetticamente”. Filosofia, dunque, come modo di vita alternativo a tutti gli altri. Per quasi tutti gli antichi, greci e romani, tale modalità consentiva di procurarsi la felicità in senso pieno, quanto meno di approssimarla il più possibile. Una felicità che poteva anche consistere nella negazione di ciò che comunemente, oggi più di ieri, si intende come “piacere”, ossia godimento e soddisfacimento di qualsivoglia bisogno materiale. È il caso dei cosiddetti “cinici”. All’opposto si trovavano i seguaci dell’“edonismo”, comunque differente da quanto oggi si intende con tale termine. Spesso la felicità consisteva in una vita senza turbamenti, in una quiete dell’animo, liberato dal giogo delle passioni (si veda Epicuro e la sua scuola). In ogni caso, a tutti interessava la qualità della vita e nessun aspetto di ordine quantitativo. Per gli stoici il sapiente e l’uomo virtuoso, dunque predisposto ad attingere la felicità, coincidevano. Quel che accomuna un po’ tutti, e ne spiega la sostanziale “inattualità” rispetto ad ogni idea di filosofo e di filosofia concepibile oggigiorno, è il timore per il movimento e il mutamento. Interessanti sono le conclusioni cui giunge lo studio di Cambiano. Anzitutto, le tesi dei filosofi antichi non sono affatto universalizzabili, come ha preteso la cosiddetta “filosofia pratica” rinata in Germania alcuni decenni fa, ad opera di studiosi quali Joachim Ritter e Günther Bien, e impegnata nella riproposizione di un aristotelismo quale dottrina funzionale a un’etica appunto universale. Aristotele sviluppa il suo discorso con riferimento diretto a una comunità precisa e circoscritta, che è poi l’Atene del suo tempo. Anche il tanto, troppo celebrato assunto aristotelico circa l’uomo quale “animale politico” non riguarda affatto l’intero genere umano. La società cui Aristotele guarda era fondata su gerarchie di valore tra gli uomini. Cambiano dà ragione, in tal senso, alla lettura che dell’etica aristotelica ha dato Alasdair MacIntyre in After Virtue. Si tratta di un’etica dal carattere “socialmente locale e particolare”, sempre radicato in una tradizione. Ciò spiega il perché della giustificazione aristotelica della schiavitù e dell’esclusione dei barbari da ogni discorso sulla “virtù”, ma non ne inficia la potenziale ripresa in epoca contemporanea con una valenza non più esclusivistica, bensì potenzialmente onnicomprensiva e dunque universale. Il contesto sociale è cambiato, resta però valido il monito aristotelico circa una vita umana valorizzata – e resa tale, cioè “umana” – se incentrata sulla ricerca della virtù, dell’eccellenza esplicata nella dimensione “pubblica”, dunque “politica”. A questo punto Cambiano non manca di cogliere il limite insito nella stessa rilettura di MacIntyre, il quale vuol infine tornare a rendere universale quel che aveva correttamente descritto come particolare, legato a un determinato contesto storico-culturale. È giusto quanto Cambiano afferma in conclusione: “l’identificazione della nozione di uomo con quella di uomo buono, eccellente, ha senso pieno soltanto all’interno di una società gerarchica, dove virtù significa distinguersi e primeggiare”. Altro punto fondamentale: “la virtù stessa, nelle sue forme più alte, richiede esercizio e scholé, ossia tempo libero da qualsiasi lavoro e, quindi, l’esistenza di altri che lavorino”. Detto ciò, Cambiano precisa un ultimo punto, essenziale: i filosofi antichi non rivendicano l’eccezionalità per il singolo ma per una tipologia. In che senso? Essi proponevano un modello di vita, di qui una sorta di universalità normativa. Il bíos filosofico può trovare realizzazione oppure no, ma quel che conta è l’ideale regolativo che esso costituisce per la condotta umana. L’universalità è nel contenuto di una vita filosoficamente vissuta, potenzialmente riproducibile in ogni tempo e in ogni luogo. Siamo dunque lontani dalla lettura che Nietzsche ha fatto dei filosofi antichi, peraltro presocratici. Il pensatore tedesco risentì fortemente dell’influsso romantico e connotò in senso accentuatamente individualistico, al limite dell’egoistico, la nozione stoica di “virtù”. Ma, appunto, Nietzsche guardava a figure antecedenti lo stoicismo, e perfino a Socrate, e infine commetteva un peccato di anacronismo, mescolando “esistenzialismo” romantico e interiorizzazione stoica. Stesso peccato ha commesso Michel Foucault, dando una curvatura estetica alla ricerca intrapresa dagli antichi di una coltivazione di sé, così come Karl Jaspers, il quale assegna un carattere radicalmente temporale all’esistenza. Per la quasi totalità dei filosofi antichi, del V e IV secolo soprattutto, non vi è invece sentimento del tempo come divenire vettoriale e unidirezionale e, tanto meno, proiezione verso un futuro indeterminato e insieme agognato. Ogni evento per essi si inseriva in una catena causale che aveva la propria origine, punto di partenza e di arrivo, in una razionalità tutta divina. Una circolarità vissuta, che ogni tentativo intellettualistico, incluso quello nietzscheano, non potrà mai più ricreare dopo l’avvento di Cristo. Insomma, ancora una volta, la tradizione biblico-cristiana ha introdotto una cesura irrevocabile. Una vita filosofica oggigiorno si persegue anzitutto come fuga dal proprio tempo, mentre per gli antichi Greci (e Romani pre-cristiani) come ritorno alla natura, ossia conformità a un ordine e a un equilibrio voluti e instaurati da una divinità immanente e panica la cui razionalità è sintetizzabile nell’idea di “misura”.