Piccolo nella mole quanto denso nella sostanza, il breve saggio di Eisenstadt presuppone che il lettore conosca già non solo il fondamentalismo nelle sue varie espressioni moderne, ma anche le linee fondamentali delle principali civiltà del mondo, sistematicamente messe a confronto fra loro. Il concetto centrale proposto dall’autore è che i fondamentalismi, malgrado il richiamo esplicito a tradizioni religiose antichissime, siano in realtà un fenomeno tipicamente moderno, o meglio profondamente influenzato da ideologie rivoluzionarie occidentali quali il giacobinismo e il comunismo. Con essi, i movimenti fondamentalisti hanno in comune l’aspirazione ad “una completa ricostruzione dell’ordine sociale e politico propugnata con un forte zelo universalistico e missionario” (p. 49). Come nel giacobinismo e nel comunismo, inoltre, l’individuo deve sottomettersi totalmente ad un ordine supposto come superiore e perfetto: giunti al potere, anche i fondamentalisti non possono essere, pertanto, se non totalitari. Della cultura occidentale, questi gruppi finiscono per rinnegare i valori della libertà personale e dell’autonomia dell’individuo. Del resto, i fondamentalisti rifiutano in blocco la prospettiva tipicamente illuministica della esplorazione razionale di tutti gli aspetti della natura e della società, nonché ogni variazione della collocazione di Dio nella comprensione del cosmo e della vita dell’uomo. Sotto questo profilo, essi si pongono come i guardiani della tradizione; nel contempo, però, della propria tradizione religiosa finiscono per considerare valida solo una parte, rifiutando tutto ciò che non si integra nella loro visione del mondo. Benché in apparenza tradizionali, i fondamentalisti finiscono così, paradossalmente, per essere degli innovatori e degli antitradizionalisti: spinti dalla sfida della modernità, “negano la tradizione esistente, con la sua complessità ed eterogeneità, mentre appoggiano una concezione fortemente ideologica della tradizione” (p. 58), compiendo quella “violenza sulla storia” che George Orwell, nel suo celebre 1984, denunciava come uno dei tratti più tipici dei totalitarismi.