L’ espace retrouvé: si potrebbe sintetizzare così, in una formula, il risultato della ricerca di Finzioni di fine secolo, con una variazione della conclusione della Recherche di Proust. Nel capitolo Viaggio ed etnografia. La vita come racconto, Proust è significativamente richiamato come modello della scrittura antropologica in cui, alla fine del viaggio, si ritrova il presente che l’antropologo ha saputo ricostruire attraverso «la capacità narrativa, l’immaginazione e il ricordo». Non il tempo ma lo spazio, è il punto di fuga verso cui convergono le differenti linee prospettiche dell’analisi di Augé; attraverso di esse lo sguardo può percorrere e riconoscere le ambiguità della finzione dell’immagine, nei «non-luoghi» della contemporaneità. È l’evidenza dell’immagine, la sua forza quotidianamente moltiplicata «dalla strada allo schermo», a sostituire il mondo abitabile e le sue relazioni con un mondo fittizio, in cui la percezione ipertrofica e accelerata costruisce una memoria senza oblio. Finzione e realtà si scambiano ambiguamente e soltanto attraverso una terapia dell’attenzione e dello sguardo se ne possono diagnosticare i sintomi: è questo il compito dell’antropologia, che deve smascherare l’illusione quando tende a costituirsi come certezza vivente, sostituendosi allo spazio vissuto del senso sociale. “Avvenimenti”, “memorie” e “oggetti” sono nuovamente collocati nello spazio, come tre tappe del viaggio di Augé: la ricerca dello spazio perduto si compie con la riscoperta del luogo come contesto sociale dell’avvenimento, come la strada percorsa dall’etnologo nel ricordo, come il posto in cui abitare (nella ricerca di una casa in Home sweet home!), come spazio inventato dall’architetto e articolato dalle opere del design nella forma degli oggetti che lo riempiono. Questo viaggio, che ci mostra dove la finzione si sostituisca alla realtà, si conclude nel luogo in cui il senso è protetto e custodito: il luogo autentico dell’arte, che, prendendo distanza dall’immagine onnipresente della surmodernité, diventa «richiesta di testimonianza» e «desiderio di scambio». L’arte inventa uno spazio dell’apertura simbolica agli altri e ritrova, così, lo spazio del vero incontro, lo spazio dell’antropologia. Giunti alla fine, Que se passe-t-il?, combinando analogamente indagine telescopica, delle categorie antropologiche, e microscopica, della descrizione dei particolari apparentemente trascurabili di tre giornate di fine millennio, mostra come «la natura accelerata, volatile e ricorrente degli avvenimenti» incida i suoi segni sulla superficie dei rapporti umani, nei luoghi dell’intimità e dell’identità personale.