La tesi che sta all’origine del libro di Joel Mokyr, frutto di una serie di conferenze tenute alla Schumpeter Society di Graz, è che la travolgente crescita economica verificatisi tra il XVI e il XVIII secolo nei paesi europei – la “grande divergenza” per usare il fortunato titolo di un libro di Kenneth Pomeranz – sia dovuta non tanto allo sviluppo di istituzioni formali e informali che promossero e stimolarono il progresso tecnologico e l’innovazione intellettuale, quanto a processi eminentemente culturali, laddove per cultura deve intendersi un insieme di credenze, preferenze e valori, trasmissibili a livello sociale, condivisi da gruppi specifici e capaci di produrre un’influenza sui comportamenti adottati dall’uomo sia nei confronti dei suoi simili sia verso l’ambiente naturale. Tale definizione implica, secondo l’autore, il riconoscimento dell’importanza delle capacità decisionali del singolo, che può scegliere se accettare i tratti culturali caratteristici dell’ambiente in cui è nato, in cui è stato educato e in cui vive o può rifiutarli a vantaggio di tratti diversi, tipici di altri contesti o del tutto originali. Tutto ciò consente di proporre una concezione evolutiva della cultura, fortemente intrisa di lessico biologico e darwiniano e basata su tre princìpi fondamenti: la variazione, l’eredità e la superfecondità. In primo luogo, la cultura, al pari delle specie animali, contiene un numero non definito a priori di caratteristiche, che sono il risultato di trasformazioni e cambiamenti determinati sul lungo periodo: alcune caratteristiche sono condivise da più gruppi, altri consentono di distinguere tra un gruppo e l’altro. In secondo luogo, la cultura, al pari dei geni, può trasmettersi seguendo percorsi diversi, per via verticale da generazione a generazione o orizzontalmente da individuo a individuo: le scelte culturali di un bambino possono essere influenzate dall’educazione impartitagli dai genitori e dalla scuola, ma al tempo stesso possono essere condizionate da forme di socializzazione intessute con i propri coetanei. Infine, al pari di quanto avviene con la selezione naturale, vengono favorite soltanto le credenze in grado di adattarsi alle condizioni esterne, mentre le altre vengono gradualmente o rapidamente eliminate. In breve, il sistema produce più varianti di quelle che un individuo è in grado di accettare (non si possono, com’è ovvio, parlare tutte le lingue del mondo né professare tutte le fedi religiose). È quindi necessario operare una sorta di benefico sfoltimento. In definitiva, la cultura è una forma di apprendimento sociale che poggia su scelte storicamente contingenti, ma riconducibili secondo Mokyr ad alcuni modelli standard detti bias. Tra questi vengono citati il bias diretto, ovvero la tendenza a operare scelte sulla base delle affermazioni di autorità riconosciute unanimemente come tali nel proprio settore, come medici e scienziati; il bias della coerenza e della conferma, vale a dire la disposizione ad accettare credenze compatibili con quelle che già si possiedono e a escludere o a ignorare le informazioni che appaiono in contraddizione con le precedenti; il bias del modello, che designa un procedimento per imitazione verso i propri pari o personalità influenti; il bias retorico, in cui le scelte sono incoraggiate dall’efficacia della persuasione e della propaganda; il bias dipendente dalla frequenza, cioè l’inclinazione ad accettare le credenze condivise della maggior parte delle persone con cui si è in contatto; il bias della razionalizzazione, che consiste nell’interiorizzazione di norme e regole sociali; il bias della coercizione, in cui le scelta sono indotte dal controllo operato da agenti terzi per mezzo della violenza e della forza; infine, il bias degli eventi salienti, in cui avvenimenti di rilievo innescano effetti di condizionamento capaci di provocare discontinuità e shock culturali. Questa visione evolutiva della cultura, spiega Mokyr, ha il duplice vantaggio di considerare il presente non come il risultato di processi inesorabili e completamente intenzionali, ma come la combinazione di alternative, influenze e una certa dose di causalità.
Definito questo complesso retroterra teorico, Mokyr ritiene che lo straordinario avanzamento delle conoscenze che si verificò in Europa tra la rivoluzione scientifica e l’illuminismo sia legato in primo luogo alla creazione della Repubblica delle lettere, una comunità transnazionale che nacque all’epoca di Erasmo e delle grandi scoperte geografiche e che raggiunse la piena fioritura tra il 1680 e il 1720, raccogliendo nel suo seno intellettuali e scienziati in cerca di fama, riconoscimento e protezione. Nonostante la debolezza dei legami tra i suoi membri, assicurati non tanto da affiliazioni istituzionali e accademiche quanto da reti di corrispondenza e dalla diffusione di periodici e riviste, la Repubblica delle lettere favorì la circolazione, la discussione e la valutazione di scoperte e teorie, promuovendo la libertà di pensiero contro ogni forma di dogmatismo e intolleranza e concependo la conoscenza come «un bene non esauribile da distribuire e condividere a livello comunitario». Il centro operativo di questa comunità, insieme reale e virtuale, fu spesso individuato dagli stessi contemporanei in Francia o in Inghilterra; tuttavia, ciò non impedì che importanti studiosi potessero operare in regioni apparentemente periferiche, come i paesi dell’Europa centromeridionale. Il funzionamento della Repubblica delle lettere era regolato da codici di comportamento piuttosto elastici, ma comunque sempre volti a incoraggiare la cooperazione e l’emulazione; le sue gerarchie interne, inoltre, non erano definite sulla base della ricchezza o del lignaggio del singolo, come in genere avveniva nelle società di antico regime, ma della sua erudizione, dell’originalità del suo pensiero e dei risultati ottenuti attraverso le sue ricerche. In tal modo, venne favorita l’affermazione di un mercato concorrenziale delle idee, che non riguardò soltanto i contenuti delle conoscenze, ma anche i metodi e gli strumenti usati per la loro acquisizione, nonché le norme da adottare per la risoluzione di eventuali controversie. Si trattò di una comunità a netta prevalenza maschile, all’interno della quale un’élite colta fu capace di produrre con la sua attività e con il suo cosmopolitismo effetti che si riverberarono su ampi settori della popolazione, proprio a partire dall’idea della scienza come processo aperto, costantemente esposto alla verifica dei suoi esiti e non fondato sulla segretezza e sull’esclusività, come lo erano invece le pratiche magiche. Le ragioni più profonde del successo della Repubblica delle lettere vanno rintracciate, quasi paradossalmente secondo Mokyr, nella frammentazione politica europea, da cui derivò un’elevata concorrenza tra gli Stati. Questa, se da un lato fu la sorgente di conflitti endemici, di cui sono un tragico esempio le sanguinose “guerre di religione” che sconvolsero il continente tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento, dall’altra permise il potenziamento delle strutture statali dal punto di vista amministrativo ed economico e soprattutto riuscì a impedire il coordinamento delle forze conservatrici e reazionarie, che pure tentarono di contrastare il progresso. In tal modo, ci si liberò, pur non senza difficoltà, dai vincoli posti dalla Chiesa cattolica e da alcune frange riformate e al tempo stesso si poté rinnegare l’autorità della cultura classica che aveva dominato per tutto il medioevo (non a caso, la querelle des anciennes et des modernes si concluse con il successo dei sostenitori dei moderni), giungendo ad abbracciare la convinzione che ci si avviasse verso un perfezionamento continuo e potenzialmente infinito soprattutto in campo scientifico e tecnologico, certezza ben espressa dalle opere di Turgot e Condorcet. Da parte sua, il mecenatismo consentì «uno scambio complesso e multiforme di servizi tra protettore e scienziato», garantendo una considerevole libertà di azione e di pensiero a specialisti di numerosi campi del sapere umano (dai geografi ai medici, dagli astronomi ai matematici), che altrimenti sarebbero stati costretti a rispettare i dettami e le cesure imposte loro dagli ambienti universitari e dalle istituzioni ecclesiastiche. La protezione dei potenti favorì anche un alto tasso di mobilità da parte di quelli che Mokyr definisce «imprenditori culturali», vale a dire persone in grado di influenzare e modificare le credenze, le preferenze e i valori di un numero consistente di individui, spesso rispondendo a un’insoddisfazione latente o manifesta della società. Tra loro, Mokyr annovera Bacon, a cui si deve l’idea della scienza come processo collettivo e l’insistenza sulla collaborazione tra teorici e tecnici, e Newton, che contribuì a demolire gli ultimi residui della cosmologia e della fisica antiche ancora presenti dopo Copernico e Galileo nella concezione della natura e dell’universo. A bias basati sulla coercizione si sostituirono bias diretti o incentrati sul contenuto.
La mancanza di qualcosa di simile a una Repubblica delle lettere penalizzò invece altre regioni del mondo, almeno fino alla penetrazione o alla conquista europea. Alla metà del XVIII secolo, ad esempio, la Cina era stata al passo con l’Occidente, anzi se possibile in alcuni ambiti l’aveva sopravanzato. Si trattava infatti di una regione relativamente colta e alfabetizzata, dotata di un apparato burocratico ben organizzato e di un’economia efficiente. Tuttavia, la precoce unità rese l’impero cinese una struttura rigida e monolitica, in cui le conoscenze erano gestite in modo centralistico, gli movimenti e il confronto tra gli agenti culturali erano sistematicamente intralciati, la socializzazione e l’accettazione del progresso erano ostacolati da una cultura incentrata sull’umiltà e sul rispetto della tradizione e il rapporto tra filosofi naturali e artigiani, auspicato da Bacon, era pressoché assente. Non che mancassero tentativi di riforma o voci eretiche rispetto alla dominante ortodossia confuciana, ma questi furono quasi sempre avvertiti come una minaccia alla stabilità del sistema e repressi con facilità dall’establishment imperiale. Isolati e scarsamente coordinati tra loro, gli intellettuali cinesi, che talvolta espressero posizioni simili a quelle elaborate dall’illuminismo radicale europeo o comunque giudicate potenzialmente sovversive dal potere, furono incapaci di incidere significativamente sugli ordinamenti sociali. Sarebbe però troppo semplicistico, sostiene Mokyr, definire l’esperienza cinese un fallimento; piuttosto bisognerebbe ammettere l’eccezionalità e l’unicità dei fenomeni che coinvolsero l’Europa in età moderna: se si trattò di un miracolo, come l’ha definito Eric L. Jones, fu suffragato da evidenze e prove inconfutabili. In definitiva, senza il pluralismo, il decentramento e il confronto (o talvolta lo scontro) non sarebbero stati possibili né quell’avanzamento culturale che culminò con l’illuminismo né quello sviluppo economico e tecnologico che diede vita alla rivoluzione industriale.