Come è stato osservato in più occasioni dagli interpreti, le indagini di Henri Bergson sul tempo come «pura durata» non solo illuminano una parte considerevole dei meccanismi incoscienti che reggono l’apparato mentale e che sono determinanti nella rappresentazione del mondo sociale, ma rivelano come l’essere umano sia un grande costruttore di storie e come esistano modi plurali di «fare storia». Se restiamo concentrati su quest’ultimo punto, vediamo come Bergson sposi uno tra gli assunti più importanti della riflessione di William James, padre del pragmatismo americano nonché fondatore del primo laboratorio di psicologia sperimentale ad Harvard, un autore che godette, anche nella cultura italiana di primo Novecento, di una particolare fortuna. In una lettera indirizzata allo storico Henry Adams, James identifica la differenza fondamentale tra il cervello di un uomo e quello di un dinosauro. Mentre il dinosauro può mostrare un’intensità di scambio di energia uguale a quella di un uomo, quest’ultimo scrive libri e realizza opere d’arte. L’essere umano possiede dunque la libertà di fare più storie, libertà nella quale si concretizza la capacità di aggiungere, come James mostra bene in Pragmatism, sia al soggetto sia al predicato, «una parte di realtà». Bergson incontrerà James per la prima volta a Parigi il 28 maggio 1905 dopo alcuni scambi epistolari con lui iniziati nel dicembre 1902. Nello stesso anno in cui esce Pragmatism, nel 1907, Henri Bergson pubblica L’évolution créatrice, in cui afferma a sua volta che, nella realtà concreta, ogni nostro stato è «un momento originale di una storia non meno originale».
In questo suo ultimo libro dalla fitta trama argomentativa, Francesco Fistetti colloca il rapporto tra Bergson e James in uno scenario più ampio di quello vincolato ai dibattiti tra Analitici e Continentali. Riprendendo la formula dello storico della filosofia Frédéric Worms, attuale curatore delle opere di Bergson, Fistetti approfondisce la storia della cultura moderna a partire dal «momento 1900», in quel lungo viaggio di riscoperta dell’America da parte della filosofia europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Fistetti riparte dalla lettura dei Quaderni dal carcere di Gramsci in cui egli si concentra sulla «doppia revisione» del marxismo, per cogliere, al di là del suo «lacunoso e approssimativo» giudizio sul pragmatismo da parte di Gramsci, «la centralità di questo "momento" di grande fervore filosofico ed intellettuale, oltreché politico, che tocca le due sponde dell’Atlantico» (p. 10). Nei suoi Chiasmi filosofici Fistetti intende dunque assolvere a due compiti fondamentali. Da un lato cogliere le molteplici ibridazioni filosofiche dell’empirismo radicale di James, in un percorso interpretativo che superi la ragione scientifica e coinvolga anche altri aspetti dell’esistenza umana, tra cui l’esperienza religiosa; dall’altro, recuperare un approccio dialettico, che sia in grado di produrre uno sguardo d’insieme sulla nostra condizione attuale, per coniugare totalità e pluralità, identità e differenze, e dunque universale e particolare. Ciò dovrebbe consentire una rilettura della ragione scientifica, funzionale all’elaborazione di una cultura del limite e della convivialità, oltre ogni riduzione della razionalità umana a uno scientismo oggettivante.
La ricostruzione storiografica e teorica di Fistetti prende avvio dalla Lebensphilosophie, ovvero dalla «temperie culturale» prevalente nei primi trent’anni del Novecento che vede proprio nel bergsonismo un atteggiamento per molti aspetti ad essa affine, a causa del suo anti-intellettualismo e anti-razionalismo. Un atteggiamento che, nei casi di Bergson e di James, si concretizza nel modo di concepire il rapporto mente-corpo, mentre ad esempio in Simmel si oggettiva nella dialettica incessante tra vita e forme, o, successivamente, in Canguilhem, nel rapporto tra filosofia e biologia (p. 107). Fistetti mostra come nel Saggio sui dati immediati della coscienza del 1889 Bergson metta bene in risalto la specificità dei fatti psicologici irriducibili a una loro localizzazione nello spazio e nel tempo concepiti sul modello della fisica. Bergson introduce il concetto di pure durée, di pura durata (peraltro introdotto prima di lui dallo psicologo coevo Victor Egger in La parole intérieure del 1881), collegandolo alla coscienza e al vivente in generale. Come rileva Cassirer nella Filosofia delle forme simboliche, in Bergson ogni forma precostituita viene vista come nemica della vita che, in quanto tale, non conosce punti d’arresto. Sebbene Bergson non affermi la superiorità del mondo spirituale rispetto alla realtà naturale, il senso ultimo della sua metafisica dell’esperienza è orientato ad affermare «il piano più profondo della coscienza, quello dell’esperienza pura, della vita senza forme, della vita come durata e come libertà» (p. 24). Aspetto non marginale della sua riflessione, considerato che questo assunto spinge Bergson, da un lato, a giudicare la distinzione kantiana tra grandezze estensive e grandezze intensive inappropriata (benché resti comunque sul terreno del trascendentale, come mostra bene Fistetti), dall’altro, a confutare il riduzionismo della psicologia positivistica e, più in particolare, della psicofisica di Fechner che pretendeva di misurare gli stati di coscienza attraverso la categoria della quantità. Secondo Bergson, infatti, la coscienza è paragonabile a una frase musicale, ed è una «qualità pura» che reca con sé tutta la sua storia precedente dell’io, come una biografia (p. 57). Bergson elabora dunque una «metafisica della durata», in cui vediamo tematizzata la dialettica tra io esteriore e io profondo, e in cui il linguaggio (quello esteriore) viene ascritto alla vita psicologica superficiale (p. 64).
Da non sottovalutare anche le considerazioni di Bergson sulla persona, corrispondente all’io sociale e sulla personalità che è irriducibile, in quanto data dall’io interiore, il quale viene attinto mediante l’intuizione. Tema, quest’ultimo, che assieme alla durata, ritroviamo discusso da Bachelard, il quale, col suo «razionalismo integrale», condivide tra l’altro l’assunto di James secondo cui usare un concetto implica farlo ogni volta interagire con una nuova esperienza (p. 104). Come Bergson mostra bene nell’Introduzione alla metafisica del 1903, l’intuizione, per sua natura, perviene all’assoluto e coglie la durata pura della coscienza, mentre l’analisi si ferma necessariamente al relativo. Scrive nel testo Bergson: «Se mi raccolgo dalla periferia verso il centro, se cerco al fondo di me ciò che più uniformemente, più costantemente e durevolmente è me stesso, trovo tutt’altro. Al di sotto di quei cristalli ben tagliati e di quella superficie congelata, vi è un flusso continuo, non comparabile a nulla di ciò che ho visto fluire. È una successione di stati, ciascuno dei quali preannuncia quello che segue e contiene quello che precede».
Gli scambi epistolari tra James e Bergson mostrano le numerose affinità dei due autori, con particolare riguardo al tema della coscienza, considerato che entrambi guardano al modello naturalistico-riduzionistico di Wundt (il quale fonda, nel 1879, il laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia) con una buona dose di sospetto; anche perché il tema che più interessa il dibattito di allora è proprio quel rapporto coscienza/cervello che, a tutt’oggi, continua a far interrogare filosofi e scienziati. Il cervello, secondo Bergson, è la «punta estrema», «la parte che si inserisce negli avvenimenti simile alla prua dove la nave si restringe per fendere l’oceano», mentre è l’anima, ossia la psiche, a descrivere il piano profondo della vita, quella «ricchezza emotiva, affettiva e intellettiva che non si lascia catturare una volta per tutte dalle forme». Considerazioni analoghe sono rinvenibili in James, il quale nei Principles of Psychology del 1890 sottolinea il carattere relazionale della psiche. James, pur negando l’esistenza della coscienza come entità sostanziale, talvolta la descrive come un’«eco» dell’anima. Ma è il concetto di esperienza – Fistetti lo mette bene in chiaro – con la sua «varietà infinita», che consente, tanto a James tanto a Bergson, di allentare il dualismo tradizionale soggetto-oggetto e di rifondare il concetto di libertà umana sia rispetto al soggetto-sostanza, sia al soggetto descritto dalle scienze naturali e sociali del tempo.
Per quanto concerne le scienze sociali in particolare, Fistetti rileva alcune influenze jamesiane su Max Weber e su Durkheim, soprattutto in relazione al tema del misticismo e del sentimento religioso come esperienza personale (p. 108). Un’ulteriore influenza jamesiana, questa volta attraverso la mediazione di Troeltsch, è rinvenibile anche sul giovane Heidegger (p. 109). Su una linea per molti aspetti analoga, Bergson rifiuta la tesi che vede un parallelismo rigoureux tra il cerebrale e il mentale. Entrambi gli autori alludono pertanto ad un’esperienza interna in cui si rivela la particolare congruenza tra la pure durée e lo stream of consciuosness. Se James deve molto a Fechner, in particolare per l’idea dell’universo e della Terra come dei sistemi animati, e a Royce, il filosofo neoidealista che vedeva nell’universo un oggetto «privilegiato» da abbracciare con lo sguardo nella sua totalità, Bergson lascia aperta la via epistemologica e metafisica mediante la critica dell’idea matematica e fisica del tempo, ed elabora una teoria dell’esperienza come «divenire reale».
Sulla base di questi assunti, Fistetti evidenzia come James, talvolta anche in aperta contrapposizione ai sistemi filosofici a lui coevi come il razionalismo, il trascendentalismo o il positivismo, col suo «empirismo radicale», elabori una concezione relazionale della coscienza, interpretandola come «una corrente di feelings di relazioni» (p. 37). Una coscienza «dinamica» che col suo incessante operare non produce solo pensieri e visioni del mondo, ma anche comportamenti, i quali, come osserva anche Peirce (in Un universo pluralistico James lo avvicina non a caso a Bergson), illuminano i significati delle nostre credenze. Se per James ogni stato mentale è unico e ogni percezione è l’esito di una storia precedente, le idee fornite di un alto grado di obiettività consentono alle teorie scientifiche di non essere delle semplici trascrizioni della realtà, bensì una sintesi progressiva nell’economia complessiva del nostro pensiero.
Fistetti rileva la sorprendente «convergenza epistemologica» di James con Mach (entrambi infatti erano legati da un’amicizia fin dai primi anni Ottanta dell’Ottocento), proprio in relazione alla funzione «economica» della scienza che, secondo Mach, «coincide con la sua stessa essenza» e che, nel caso specifico di James, coincide con una «revisione graduale del nostro patrimonio pratico-conoscitivo» (p. 46). L’accento che James pone tanto sui limiti dello scientismo, tanto sulla necessità di una visione aperta e relazionale della coscienza e della vita morale, deve molto al neokantismo di Renouvier, il quale valorizza la categoria kantiana della Relazione esaltando la libertà della persona in chiave etica. Nella lettura di Fistetti James declina la libera personalità di Renouvier come individualità creativa, imbevendola di élan vital bergsoniano (p. 96). Suggestiva è pure l’identificazione che James stabilisce in La volontà di credere tra la nozione di caso, l’idea di indeterminatezza e il concetto di dono (p. 98), giacché la libertà della persona deve molto al presupposto dell’esistenza dei possibili, di cui parla appunto Renouvier.
Un altro autore importante sul quale si concentra l’indagine chiasmatica di Fistetti è Sorel, riletto alla luce del suo «pragmatismo integrale». Fistetti rileva così il paradosso di Sorel: mentre egli legge Bergson, condividendone le tesi fondamentali (con particolare riguardo all’Evoluzione creatrice), lo contrappone tuttavia a James, il quale, in De l’utilité du pragmatisme, viene per così dire derubricato ad un «episodio». Bergson da un lato non difende James dagli attacchi di Sorel, ma salvaguarda, dall’altro, il suo pluralismo cognitivo ed etico «contro ogni metafisica dell’azione creatrice» che può facilmente sfociare nel nichilismo o in un cieco attivismo (p. 101). Se spostiamo l’attenzione sul livello antropologico, si scopre un «filo jamesiano» che guida le riflessioni di Émile Boutroux, il quale scrive la prefazione all’edizione francese di Le varie forme dell’esperienza religiosa. Nello specifico, Boutroux condivide con James l’idea che gli stati interiori devono poter produrre vita, potenza, gioia, secondo una specifica capacità di trasmettere «forza morale», ragion per cui anche i fenomeni religiosi (se intesi come la «salute» spirituale del sentimento religioso, più che di una religione istituzionalizzata), difficilmente potrebbero scomparire con l’affermarsi dei processi di secolarizzazione (pp. 118-122). Perché secondo Boutroux che valorizza l’importanza di The Varieties di James (p. 158) e gli dedica, nel 1911, una brillante monografia in cui lo raffigura come un pensatore aperto ed elegante (p. 163), la religione è «espressione di un individualismo superiore» orientato spontaneamente verso il bene comune, giacché la coscienza religiosa induce l’uomo ad opporre la dignità della persona alle costrizioni sociali. Non da ultimo, sempre nel libro William James, Boutroux affronta il nodo problematico della relazione tra intuizione e concetto in James e Bergson, riconducendo il primo nella grande cornice della tradizione metafisica classica (p. 169). Aspetto non marginale quello dell’esperienza religiosa, che arriva a costituire, in tal senso, un’«esperienza totale».
Nel percorso interpretativo di Fistetti, vediamo allora che Durkheim lettore di Boutroux e di James sostiene la tesi secondo cui la religione è quasi un’«espressione abbreviata» di tutta la vita collettiva (pp. 126-127). Se dal suo canto Durkheim, pur rivendicando l’autonomia «normativa» del pensiero sulla realtà, insiste sulle matrici sociali delle idee, Marcel Mauss nel Saggio sul dono si richiama a sua volta a James, presentando l’individuo come un essere animato dalla «coscienza dei diritti» e dai sentimenti più puri tra cui la carità, il servizio sociale o la solidarietà. Ma tornando circolarmente a Bergson, si scopre che una tra le sue mosse più indicative consiste nell’interpretare il pragmatismo di James come una forma inedita di kantismo, «che coniuga la libertà/inventività individuale con un patrimonio collettivo di conoscenze ed esperienze depositate nella nostra mente» (pp. 171-172), senza tuttavia arrestare, come ricorda in conclusione Fistetti, quello «sforzo di dilatazione intellettuale» che fa saltare molti dei nostri schemi nel momento stesso in cui ci fa percepire una realtà assoluta.