Borges lettore di Nietzsche e Carlyle


Il volume, pubblicato originariamente nel 2014 per le edizioni dell’Universidad Nacional de Córdoba e ora tradotto in italiano da Giuliano Campioni (che firma anche la nota introduttiva), si divide in due sezioni. La prima, dal titolo Zarathustra e l’ombra del nazismo, non è volta tanto a indagare l’influenza di alcuni temi nietzscheani – l’identità personale, il rapporto tra linguaggio e realtà, la questione del tempo – sulla vasta e composita produzione dello scrittore argentino, argomento già oggetto di analisi da parte della letteratura critica, quanto ad illuminare un ambito molto meno noto, anche agli specialisti: esaminare gli scritti in cui Borges si occupa e discute in modo diretto la filosofia di Nietzsche, con la quale venne in contatto probabilmente durante i suoi soggiorni svizzeri, nel biennio trascorso a Ginevra (1916/1918) o nell’anno passato a Lugano (1919). L’attenzione di Sánchez si concentra quindi su una serie di testi, di carattere in parte saggistico in parte narrativo, pubblicati in quel decennio decisivo per le sorti della storia mondiale che va dal 1936 al 1946, e che vide l’ascesa e la caduta del nazionalsocialismo e che conobbe le tragedie della Shoah e del secondo conflitto su scala globale, vicende che condizionarono in profondità anche la realtà sociale e politica argentina.

Il percorso proposto da Sánchez prende le mosse dall’articolo La doctrina de los ciclos, apparso sulla rivista «Sur» nel maggio 1936 e in seguito incluso nella Historia de la eternidad. Al centro dell’attenzione di Borges sta la dottrina dell’eterno ritorno, uno dei temi che lo impegnarono maggiormente nel corso della sua carriera e su cui tornò in maniera costante nelle sue opere. Nietzsche, scrive Borges, non può essere considerato il primo ad aver introdotto l’idea dell’eterno ritorno, perché questa si trova già formulata nella filosofia presocratica, in particolare nei pitagorici e negli stoici. La sua originalità (che è a un tempo un motivo di forza e di debolezza del suo pensiero) consiste semmai nell’averla ripresa fornendone una lettura in chiave drammatica e patetica, attraverso l’adozione di uno stile profetico e una costante immedesimazione con la figura di Zarathustra. Proprio questa tensione “religiosa” e questa concentrazione pressoché esclusiva sul sé avrebbe spinto Nietzsche ad assimilare completamente la dottrina dei cicli, facendola propria, senza ammettere alcun debito con gli antichi, che pure conosceva bene in quanto filologo: «Derivare la sua definizione da una epitome, o dalla Historia philosophiae graeco-romanae dei professori supplenti Ritter e Preller, non era possibile per Zarathustra, per ragioni di voce e di anacronismo – quando non tipografiche. Lo stile profetico non permette l’impiego delle virgolette né l’erudita citazione di libri e di autori».

Nel secondo testo, pubblicato nel febbraio del 1940 sul quotidiano «La Nación» con il titolo Algunos pareceres de Nietzsche, Borges mira invece a respingere l’accostamento, sempre più insistente all’epoca, tra Nietzsche, il nazionalsocialismo e l’antisemitismo. Anche se riconosce che lo stesso filosofo tedesco abbia «acconsentito e forse corteggiato questo equivoco», ritiene tuttavia che l’immagine diffusa di un Nietzsche nazionalista e razzista sia il frutto di semplificazioni e fraintendimenti della sua opera, una vera e propria «perversione della realtà». Per tale ragione, presenta una silloge di frammenti postumi in cui compaiono affermazioni antirazziste, di rifiuto dell’odio verso gli ebrei e di condanna dell’assimilazione tra forza, violenza e crudeltà. Citando dalla peraltro problematica e lacunosa edizione compilata da Alfred Baeumler nel 1931, Die Unschuld des Werdens. Der Nachlass, Borges riporta un frammento composto nella primavera del 1884, in cui Nietzsche scrive che «Non siamo tanto stolidi da entusiasmarci per il principio “la Germania, la Germania soprattutto” o per il Reich tedesco»; un altro risalente al periodo compreso tra il novembre 1887 e il marzo 1888, in cui sostiene che «il nazionalismo ha rovinato in Francia il carattere e in Germania lo spirito e il gusto. Per sopportare una grande sconfitta – una sconfitta definitiva – bisogna essere più giovani e sani del vincitore»; e ancora uno dell’estate del 1888 in cui afferma che gli ebrei «sono, nell’Europa insicura, la razza più forte, essendo superiori alle altre per la lunghezza del loro sviluppo. La loro organizzazione presuppone un più ricco divenire, un maggior numero di fasi di quel che possano dimostrare tutti gli altri popoli». Ugualmente citati da Borges sono i brani in cui si condanna la deleteria spinta espansionistica e annessionistica della Germania sia verso quei paesi abitati da popoli affini al tedesco, sia verso quei territori occupati da razze giudicate “inferiori”. Si tratta di testi che per Borges, il quale a sua volta riprende delle affermazioni dell’editore Baeumler, rappresentano l’«opera capitale» di Nietzsche e racchiudono «il nucleo profondo del suo pensiero», a differenza degli scritti pubblicati, il cui stile risulta poco limpido e troppo spesso influenzato da polemiche e reticenze, nonché dal gioco continuo dei mascheramenti. In particolare, il bersaglio polemico pare essere proprio lo Zarathustra, che per Borges è il più conosciuto, ma non certo il più complesso né il migliore dei testi di Nietzsche: la sua megalomania e il suo tono enfatico e sacrale lo rendono «un prophetic book più artificioso e molto meno appassionato di quelli di Blake» o addirittura un «pastiche giudeo-tedesco» con il quale Nietzsche «accondiscese a un libro più povero di lui».

Il terzo e ultimo testo su cui Sánchez si sofferma, e di cui offre un’appassionante e convincente interpretazione, è un racconto, Deutsches Requiem, pubblicato per la prima volta su «Sur» nel febbraio del 1946 e inserito tre anni dopo nella raccolta El Aleph. Protagonista della storia è un gerarca nazista, Otto Dietrich zur Linde (che nelle intenzioni di Borges dovrebbe incarnare «l’idea platonica di un nazista»), nominato nel 1941 vicedirettore del campo di Tarnowitz. Poco prima di essere fucilato per crimini di guerra, zur Linde redige un memoriale per far conoscere al mondo le ragioni e le circostanze che lo hanno condotto ad aderire al nazionalsocialismo, che ai suoi occhi ha il merito di aver inaugurato «un tempo nuovo» in cui vi era bisogno di «uomini nuovi». Oltre a considerarsi l’erede di illustri antenati che si sono immolati per la causa della Prussia prima e della Germania poi, zur Linde ritiene decisive per le sue scelte personali e politiche le letture di Schopenhauer e Nietzsche (oltre che di Spengler, le cui opere l’avrebbe convinto a iscriversi al partito). Se di Schopenhauer dichiara di apprezzare l’analisi del fatalismo condotta in Parerga und Paralipomena (da cui ricava la convinzione che la vita dell’uomo sia assimilabile a un automatismo, in cui non vi è spazio per l’autodeterminazione e soprattutto per la responsabilità del singolo), da Nietzsche riprende l’idea di un Übermensch che deve aspirare a liberarsi della più grave delle tentazioni, la compassione e la pietà per i propri simili, in vista dell’instaurazione del regno della pura violenza, essendo il nazismo anzitutto un «fatto morale». Ed è quanto riesce a fare zur Linde nel momento in cui giunge al campo il poeta ebreo, dal nome parlante, David Jerusalem: pur riconoscendo la sua grandezza come artista, la sua capacità di magnificare e di rallegrarsi della bellezza dell’universo con i suoi poemi, alcuni dei quali ha imparato addirittura a memoria, il gerarca lo sottopone a torture indicibili (non descritte infatti da Borges), che lo conducono prima poi alla pazzia, poi a darsi la morte. A detta di Borges, quindi, zur Linde si rivela un “cattivo” e “passivo” interprete di Nietzsche, attento non allo spirito del testo, ma soltanto alla sua lettera, da cui risulta infine travolto. In questo, può essere equiparato a coloro che parlano di Nietzsche «senza capirlo» e «confondono la sua etica individuale con la nessun’etica del nazismo». Zur Linde diventa così un caso esemplare di quelle «rozze semplificazioni», come le definiva Mazzino Montinari, operate ideologicamente sull’opera nietzscheana e dai cui rischi Borges aveva messo in guardia negli articoli degli anni precedenti. Dall’altra parte, però, zur Linde sembra aver compreso meglio di altri la caratteristica più rilevante del regime, che vede come fatalmente e intenzionalmente votato non al trionfo, ma alla sconfitta finale. Un tratto rilevato negli anni stessi da Thomas Mann nel saggio Nietzsches Philosophie im Lichte unserer Erfahrung (1947) e ripreso in tempi più recenti da Enzensberger nel suo Der radikale Verlierer (2006).

Quasi agli antipodi sembra situarsi il giudizio espresso da Borges su Carlyle e sulla sua possibile influenza sul nazismo, argomento a cui Sánchez dedica la seconda parte del suo volume, dal titolo Scetticismo e critica dell’eroismo. Tanto Borges ritiene che Nietzsche sia stato strumentalmente inserito nella genealogia dei precursori dell’hitlerismo da lettori “interessati” come zur Linde, quanto è convinto che Carlyle possa, anzi debba, esservi a buon diritto annoverato. Votato a un pessimismo radicale, incline alla solitudine più estrema, succube del fanatismo e dell’irrazionalismo, Carlyle avrebbe contribuito con le sue argomentazioni a porre le basi di quel retroterra teorico e culturale che si sarebbe rivelato decisivo per la nascita e lo sviluppo dei totalitarismi novecenteschi: «egli affermò», scrive Borges nel 1949 nella premessa alla traduzione spagnola di On Heroes, «che un ebreo torturato è preferibile a un ebreo milionario, […] giustificò Bismarck, venerò e forse inventò la Razza Germanica». In nome del suo spirito antidemocratico e antiparlamentare, del suo culto degli eroi e della sua ripulsa per la massa, Carlyle avrebbe radicalmente rifiutato i principi su cui si fondavano l’illuminismo e l’enciclopedismo settecenteschi, proponendo invece il recupero dell’immagine di un medioevo intriso di superstizione, dominato nei rapporti sociali e politici dalla forza e dalla gerarchia. Se è vero allora che, per Borges, sia Nietzsche che Carlyle rifiutano i valori della modernità occidentale e provano a elaborare una risposta a quella che avvertono come la scomparsa di ogni orizzonte di senso, sia metafisico sia più in generale del pensiero, le loro analisi giungono tuttavia ad esiti opposti. Di Nietzsche, infatti, Borges loda a più riprese l’attitudine a mantenere la «lucidità nel cuore stesso delle polemiche» e una «certa delicatezza nell’invettiva, che la nostra epoca pare aver dimenticato»; a Carlyle invece rimprovera l’appiattimento su un dogmatismo inflessibile, che nega le posizioni scettiche e finisce così col giustificare il procedere della storia in nome dell’equiparazione tra “essere” e “dover essere”. Ecco allora che se Carlyle con la sua teoria politica avrebbe aperto la strada al nazismo, Nietzsche incarnerebbe il «più contemporaneo» non solo tra i filosofi, ma tra tutti gli autori del XIX secolo.

 

Dati aggiuntivi

Autore
Anno pubblicazione 2018
Recensito da
Anno recensione 2018
ISBN 9788846751515
Comune Pisa
Pagine 90
Editore