Pubblicata nel 1939, l’Autobiografia del filosofo inglese Robin George Collingwood (1888-1943) vuole essere una storia del suo pensiero, che viene ripercorso dalle origini, attraverso gli sviluppi e la maturazione di nuove idee, fino al suo pieno compimento a ridosso della Seconda Guerra Mondiale. Una storia segnata dall’arrivo a Oxford per studiare filosofia, dove ha inizio un serrato confronto dell’autore con la corrente realista, dominante all’interno della scuola tradizionale. È infatti a partire dalla messa in discussione di alcuni princìpi gnoseologici della filosofia realista, nonché dalle riflessioni maturate durante la continuativa esperienza come addetto e poi dirigente di scavi archeologici, che Collingwood arriva a elaborare la sua teoria della domanda e della risposta. Secondo questa teoria l’atto conoscitivo non si risolve in una semplice intuizione o apprensione della realtà, ma si suddivide in due momenti: quello del porre domande e quello del ricercare risposte. Essa costituisce una presa di distanza netta non solo dalle teorie gnoseologiche realiste, ma anche dal metodo critico tipico di quella scuola. Un metodo distruttivo, che non si basa su un approccio scientifico ai testi, ma su una critica agli autori anche per mezzo di pensieri attribuitigli infondatamente. Le formulazioni criticate sono inoltre suddivise in proposizioni minori, delle quali viene messa in luce la contraddittorietà. Secondo Collingwood, invece, verità, falsità, coerenza, contraddizione e significato appartengono non alle proposizioni in sé, ma alle proposizioni intese come risposte a domande. Diviene quindi necessario, per comprendere il testo di un autore, ricostruire le domande a cui egli vuole rispondere, adottando un approccio storico. La contraddizione tra proposizioni potrebbe infatti rivelarsi il frutto di una nostra erronea interpretazione delle domande a cui rispondono.
Collingwood applica questi princìpi direttamente allo studio e all’insegnamento della storia della filosofia, concepita non come una serie di risposte in successione a un certo numero di problemi eterni, ma come storia del mutamento progressivo di un problema e delle risposte a esso date. Da qui nasce l’esigenza del filosofo inglese di soffermarsi sul tema della conoscenza storica, per elaborarne un’epistemologia che non può esaurirsi (come pretendono i realisti) in una generica teoria del metodo scientifico. Collingwood invoca infatti una rivoluzione baconiana in campo storico, necessaria per superare quello che egli definisce uno stato di «collage di testimonianze», che consiste nel concepire il passato come morto e la sua conoscenza come completamente affidata alle autorità.
È fondamentale sottolineare, però, come questa esigenza nasca in Collingwood tanto per scopi teoretici quanto e soprattutto per scopi pratici. Scosso dalla barbarie della Prima Guerra Mondiale, l’autore ricerca i mezzi necessari per una migliore comprensione e un migliore controllo delle cose umane. Può la storia essere uno strumento in questo senso? Secondo Collingwood sì, a condizione che avvenga quella rivoluzione del metodo storico menzionata sopra. Lo storico, infatti, per rispondere alle domande che si è posto sul passato, deve ricercarne le tracce nel presente. Tracce che costituiscano delle prove. Per questo è possibile affermare che il passato non muore mai, ma sopravvive (anche se non necessariamente in modo continuativo) e di conseguenza può essere studiato.
Il primo principio di filosofia della storia enunciato da Collingwood consiste proprio nell’idea che la storia si occupi non di eventi, ma di processi che non hanno né un inizio né una fine. In questo senso possono ritrovarsi nel nostro presente caratteristiche di un’epoca passata. Se passato e presente non sono esterni l’uno all’altro, diviene chiara l’utilità della storia per la vita umana, in quanto la conoscenza storica favorisce la comprensione di situazioni nuove e atipiche. Il secondo principio di filosofia della storia, elaborato da Collingwood nel 1928, consiste nell’idea che ogni storia sia una storia del pensiero. Centrale per la conoscenza storica è infatti il concetto di finalità: qualsiasi documento, sia questo scritto o meno, diviene una testimonianza nel momento in cui lo studioso ne individua la funzione. La ricostruzione di un pensiero passato è infine possibile perché esso non è morto, ma sopravvive «incapsulato» in pensieri presenti (terzo principio di filosofia della storia). Si può così affermare che la conoscenza storica conduce l’uomo alla conoscenza di sé, poiché lo mette nelle condizioni di conoscere pensieri passati, ripensandoli e divenendo così una sorta di «microcosmo di tutta la storia».
Quello che emerge dallo sviluppo del pensiero di Collingwood è quindi l’esigenza di una filosofia funzionale alla vita pratica, che possa aiutare gli uomini a migliorare le proprie condizioni, favorendo una maggiore comprensione e un maggior controllo delle cose umane. Si tratta, dunque, di una visione completamente diversa da quella dei realisti, che concepiscono la filosofia piuttosto come campo di ricerca rivolto esclusivamente ai professori e scevro di ogni forma di utilità. Questa pressante necessità di un’unione tra teoria e pratica segna interamente il pensiero di Collingwood, emergendo in modo particolare al termine della Prima Guerra Mondiale e a ridosso dello scoppio della Seconda, momento in cui troverà pieno ed esplicito compimento. L’autore infatti contesta tutti quei filosofi conosciuti in gioventù, che vantano un distacco dalle cose pratiche in favore di una pura speculazione. Accusandoli di essere una delle cause della decadenza delle istituzioni alla fine degli anni Trenta, egli afferma: «So di essere stato per tutta la vita impegnato, senza averne coscienza, in una lotta politica contro queste cose nell’oscurità. D’ora in avanti combatterò alla luce del sole» (p. 149).