Che il Novecento sia stato il “secolo di Auschwitz” è acquisizione consolidatasi solo nel suo scorcio, secondo un ritmo di riconoscimento che rivela una tipica sfasatura tra tempi della verità storica e tempi della memoria collettiva. In particolare l’oblio della Shoah per lunghi tratti del secolo passato indica in modo esemplare il funzionamento sociale della memoria traumatica, che passa attraverso lunghe fasi di rimozione prima di riemergere alla coscienza collettiva in conseguenza di un’esperienza di anamnesi, spesso casuale. Ciò è capitato alla memoria dello sterminio, dapprima confusa nel paesaggio di morte e distruzione della seconda guerra mondiale come solo una catastrofe tra le altre, e quindi riconosciuta nella sua unicità per impulso di alcuni eventi particolarmente significativi. Tra questi l’autore menziona il processo ad Eichmann, la guerra dei Sei Giorni e infine un episodio apparentemente marginale come il successo internazionale della nota serie televisiva Holocaust. Seguendo periodizzazioni e schemi esplicativi diversi a seconda dei contesti nazionali, la discussione sulla Shoah ha conquistato un ruolo cruciale all’interno delle opinioni pubbliche: non a caso l’Historikerstreit sarebbe stato impensabile nell’immediato dopoguerra. Politiche commemorative centrate intorno a “luoghi di memoria” sono così divenute fondamentali nella vita civile di molte nazioni. Tra le mutazioni culturali di fondo segnalate da Traverso per comprendere questo fenomeno pare particolarmente importante il passaggio dal culto degli eroi della resistenza antifascista alla celebrazione delle vittime dello sterminio che rappresenta l’asse portante dell’attuale discorso sulla guerra mondiale. Marginale nella coscienza pubblica fino almeno agli anni Settanta, la Shoah era tuttavia presente nelle riflessioni di numerosi intellettuali fin dall’immediato dopoguerra. Il libro di Traverso offre da questo punto di vista un’articolata mappa di posizioni sullo sterminio, sottolineando l’esistenza di non trascurabili frange di collaborazionisti (tra gli altri Céline, Maurras, Evola, De Man, Hamsun, Eliade) ai cui antipodi vanno collocati i “salvati” di leviana memoria (per esempio Levi, Améry, Celan). In mezzo si stende la zona dei “chierici” antifascisti ciechi di fronte allo sterminio (come Benda, Aron, Foa, Berlin) e dei “segnalatori d’incendio”, ossia gli intellettuali tedeschi esuli che hanno avvisato del pericolo genocida e l’hanno denunciato fin dai suoi inizi (Arendt, Anders, Jaspers, gli esponenti della Scuola di Francoforte). Nel complesso un’importante e riccamente documentata analisi che indica le complesse relazioni tra l’etica degli intellettuali e la memoria collettiva.