Il volume, curato da Patricia Chiantera-Stutte, raccoglie il carteggio tenuto per un trentennio, tra il 1935 e il 1966, da Delio Cantimori e lo storico svizzero Werner Kaegi, docente di storia generale a Basilea, specialista di Burckhardt, Huizinga e della cultura religiosa e spirituale della prima età moderna. Alla metà degli anni Trenta, i due studiosi, quasi coetanei, avevano trovato molteplici terreni di confronto: in primo luogo, nell’opera di ripensamento critico che andavano conducendo sulle categorie di umanesimo e rinascimento; in secondo luogo, nell’analisi della circolazione delle idee e dei rapporti tra intellettuali e dissidenti religiosi in Europa; infine, nella riflessione sul rinnovamento degli strumenti concettuali e del metodo della ricerca storiografica. Tutti temi che si trovano affrontati nell’epistolario, in modo esplicito o tra le righe, come rileva Chiantera-Stutte nella sua introduzione, decisiva per comprendere le motivazioni profonde che stanno alla base della loro relazione e per porla sullo sfondo di un più ampio contesto storico e culturale. Nonostante la divergenza tra le loro posizioni politiche – non a caso, di politica si parla soltanto indirettamente nelle lettere, almeno fino al dopoguerra, quando Cantimori avvia Kaegi alla lettura delle opere di Gramsci e gli comunica il suo allontanamento dal Pci –, tra i due nascerà un’intensa amicizia, che sarà caratterizzata fino all’ultimo da gratitudine e rispetto.
Dalle lettere emerge, infatti, come Cantimori e Kaegi mostrino un’attenzione reciproca sia per le loro vicende personali e familiari, tanto che le rispettive mogli (Emma Mezzomonti e Adrienne von Speyr) e il loro stato di salute sono una presenza continua nell’epistolario; sia per i loro percorsi di studio, scambiandosi idee sull’avanzamento delle loro ricerche e sui molteplici incarichi didattici e scientifici che li attendono – dalle lezioni agli esami, dalle conferenze ai concorsi. Non mancano notazioni sul presente e sul futuro dell’accademia, nonché giudizi su amici e colleghi, talvolta severi, talaltra elogiativi. Si tratta di considerazioni che oscillano di continuo tra lo sconforto e la speranza nel futuro. In una missiva risalente a metà agosto del 1952, cogliendo l’occasione della morte di Giorgio Pasquali, Cantimori allude a una crisi generale della cultura italiana, dovuta alla scomparsa di un’intera generazione di studiosi, che non sembrano lasciare dopo di loro degni eredi: «Salvemini è vecchio; Volpe sopravvive a sé stesso; Croce è un monumento nazionale; Omodeo è morto; Luigi Russo è ancora sulla breccia, ma vive consumando il capitale; Pasquali è morto. Queste erano personalità vive; nonostante le differenze politiche, avevano in comune una civiltà, apertura critica, indipendenza di spirito, disposizione alla lotta per le loro idee, che gli epigoni, ahimè, non hanno, o hanno ben poco».
Tre anni dopo, Cantimori non ha cambiato idea sugli «attivissimi e turbolenti» giovani storici italiani, tanto da confessare a Kaegi: «non riesco a capirli più bene; e a volte sono portato a biasimarli, a criticarli senza residuo, a rampognarli. Sono così consapevoli, troppo consapevoli dei doveri degli altri verso i “pueri” che mi sembra li trasformino in diritto di servirsi di tutti come servi, e peggio. Ma forse sono sfoghi di vecchio». Tuttavia, al principio di luglio del 1956, lo stesso Cantimori riserva parole di stima e apprezzamento per il non ancora trentenne Marino Berengo, suo allievo, impegnato in un soggiorno di studio a Zurigo e definito «il nuovo genio storico italiano (dico sul serio!): un tipo straordinario come capacità di lavoro in archivio e in biblioteca e come versatilità di idee».
Nel luglio 1963, di fronte alle preoccupazioni per la salute dei genitori e alla consapevolezza del declino delle forze fisiche, confessa a Kaegi di sentirsi rinfrancato dalle discussioni avute con i giovani studenti, mentre le conversazioni con i colleghi inducono in lui noia e frustrazione: «preferisco di perdere le energie (poche) che ho ancora con quei (pochi) giovani che mi cercano e che vogliono lavorare, a Napoli, Pisa, Firenze, piuttosto che con gli illustrissimi e chiarissimi colleghi delle nostre amatissime italiche Facoltà, Istituti, Accademie, e così via. […] Forse è solo egoismo; ma coi colleghi si parla solo di cattedre, concorsi, congressi, premi etc., con gli altri di Humboldt (Guglielmo), di Giulio II e dei suoi cardinali, di Carlo Marx, della “giornata lavorativa”. Insomma…». E ancora, a maggio del 1966, pochi mesi prima di morire, di ritorno dagli Stati Uniti, Cantimori contrappone i discorsi malinconici in difesa della civiltà pronunciati da Kristeller, e che gli appaiono risolversi in «giaculatorie o formule apotropaiche o propiziatorie», a un episodio apparentemente marginale ma significativo. Nella biblioteca di Princeton un giovane studente, non conoscendolo, gli chiede aiuto per tradurre un testo dal tedesco di von Balthasar: «questa fiducia nel leggere e tradurre e capire, pura, senza scuola, esami, aiuti, concorsi etc. è bella; non l’ho trovata altrove, e non la dimenticherò, anche se non vedo in ciò il riassunto di tutta l’America».
Cantimori e Kaegi si scambiano costantemente volumi e articoli propri e altrui e sono animati dalla ferma volontà di far conoscere le ricerche dell’altro al pubblico italiano e a quello elvetico attraverso traduzioni e recensioni su riviste specialistiche, attività a cui si dedicano con passione e zelo. Nel 1943 Kaegi porta a termine la traduzione in tedesco degli Eretici italiani del Cinquecento, avvalendosi dell’aiuto di un suo studente di dottorato, Fred Luchsinger, che si occupa della redazione dell’apparato critico, aggiungendovi documenti inediti: per via delle difficoltà dovute alla guerra e alle lungaggini dell’editore di Basilea Schwabe, l’opera apparirà solo nel 1949, con un’importante prefazione di Cantimori, e otterrà fin da subito ottime recensioni. Nell’epistolario, il lettore si imbatterà, soprattutto tra maggio e luglio del 1949, in puntuali discussioni su questioni interpretative e testuali. Da parte sua, riprendendo un progetto di Ernesto Ragionieri, poi da questi abbandonato, Cantimori cura e introduce nel 1960 presso Laterza la versione italiana delle Meditazioni storiche di Kaegi, traducendo i saggi dello studioso svizzero insieme alla moglie Emma, a Claudio Cesa e a Paolo Chiarini.
Al termine del volume, si ha l’impressione che, per Cantimori e Kaegi, l’amicizia sia anzitutto una forma di consolazione e di sollievo rispetto a una società in cui non si riconoscono appieno e a un pessimismo di fondo, che entrambi coltivano. È così che nelle lettere la vita si combina con la ricerca, le urgenze e le preoccupazioni del quotidiano si accompagnano alla comune intenzione di elaborare una storiografia che sappia elevarsi dagli angusti confini locali e nazionali per dirsi propriamente europea, attraverso una ridefinizione e un recupero della tradizione umanistica e dei suoi lasciti sul lungo periodo.