La notte di Natale del 1996, un barcone maltese con 283 profughi pachistani, tamil e indiani affonda nel Canale di Sicilia, di fronte alle coste di Portopalo. Per mesi, nonostante le voci e i resti umani impigliati nelle reti dei pescatori, la tragedia viene ignorata. Solo grazie all’inchiesta di Giovanni Maria Bellu, inviato del quotidiano “la Repubblica”, vengono alla luce – cinque anni dopo – le prove del naufragio.
Due installazioni video e 17 monitor evocano e raccontano la tragedia della “Nave fantasma” nella mostra “Border Device[s] / Dispositivi di confine”, un progetto di Multiplicity sulla frammentazione dello spazio contemporaneo in programma alla Palazzina dei Giardini di Modena nei giorni del Festival filosofia (dalle 9 alle 23, ingresso libero, venerdì 17 alle 18.30 presentazione con Stefano Boeri e Matteo Ghidoni) e nei fine settimana fino al 3 ottobre.
A conclusione di una ricerca poliennale su “politiche e mitologie dei confini”, la Fondazione Collegio san Carlo di Modena ha infatti invitato il progetto Border Device(s) di Multiplicity per arricchire di immagini le parole e di figure i concetti.
In “Odessa/The world” due video di Armin Link presentano i ritratti paralleli di due comunità che vivono a bordo di due navi da crociera: l’Odessa, rimasta ancorata nel porto di Napoli, sotto sequestro, per sette anni, con a bordo il capitano e sette uomini dell’equipaggio, e The World Residensea, vero e proprio condominio di lusso in continuo movimento, dove è possibile comprare un appartamento con annessa identità di cittadino off-shore.
“The Road Map”, installazione video prodotta da Multiplicity, racconta infine di due auto che nel gennaio 2003 percorrono le strade di Cisgiordania. Il tragitto dalla colonia di Kiriat Arba alla colonia di Kudmin avviene sull’autostrada 60 assieme a una persona con passaporto israeliano. La strada che unisce Hebron a Nablus viene percorsa assieme a una persona con passaporto palestinese. Le due strade cominciano e finiscono alla medesima latitudine, in alcuni tratti sono anche sovrapposte, ma i tempi di percorrenza sono molto diversi: un’ora e cinque ore e mezza. Due video paralleli documentano i viaggi.
Frontiere, aree-cuscinetto, sistemi di controllo, zone protette disegnano uno spazio increspato ovunque da confini e scandito da un alternarsi di badge, password, codici d’ingresso e identificazione. I confini sono l’altra faccia della globalizzazione, la cornice dei flussi di individui, merci, informazioni che scorrono nel mondo. Proliferano per difendere privilegi e abitudini, servono a controllare porzioni di territorio, aiutano a dosare scambi di culture e di linguaggi. Per questo i confini oggi non sono linee, e non sono solo muri.
Ci sono confini che, come imbuti, convogliano in un punto- lungo una costa o una frontiera – spostamenti disordinati di oggetti e individui, come nel caso delle imbarcazioni che trasportano gli immigrati da una parte all’altra del Mediterraneo. Altri che sembrano tubi impenetrabili, come le strade a scorrimento veloce che attraversano Israele e la Palestina. Confini che nascono dalle sacche tra due territori in conflitto, come la striscia deserta che taglia a metà Nicosia, ma anche i confini che – come spugne- attraggono popolazioni e investimenti, creando nuove comunità. E confini che come un arto-fantasma continuano a funzionare anche quando non esistono più. E soprattutto, ovunque nel mondo, ci sono recinti: di filo spinato, di cemento, o anche mobili come quelli che isolano dal resto del mondo, per ragioni differenti, gli abitanti delle navi da crociera Odessa e The World Residensea.