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Lo sfruttamento dei lavoratori migranti non è un fenomeno solo italiano, in forme più o meno eclatanti è diffuso in tutta Europa. Qualche anno fa la Corte europea per i diritti umani ha avuto modo di affrontare il problema nella sentenza Siliadin v. France, discutendo gli obblighi derivanti dall’articolo 4 (sul divieto di schiavitù e lavori forzati) della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte doveva pronunciarsi sul caso di una giovane del Togo che, fatta arrivare in Francia con la promessa di un legale inserimento sociale, si era vista sequestrare il passaporto e dare in «prestito» a una coppia che aveva bisogno di una babysitter e di una domestica. La giovane togolese si era ritrovata a lavorare sette giorni alla settimana, per quindici ore al giorno, senza un giorno libero e senza paga. Dormiva su un materasso nella stanza dei bambini e non aveva quindi neppure uno spazio dove godere di qualche momento di intimità. Riuscita a rientrare in possesso del proprio passaporto, la ragazza, con l’aiuto di un vicino di casa, aveva denunciato la coppia. Questa era stata condannata a pagarle il salario non corrisposto e a risarcirle i danni morali subiti, ma non era stata riconosciuta colpevole di alcuna violazione dei diritti fondamentali. La Corte europea per i diritti umani ha affermato che la ragazza era stata ridotta in condizione di servitù e ha condannato la Francia per non disporre di adeguati strumenti di tutela contro la condizione di servitù e di lavoro forzato. La sentenza della Corte sottolinea che, tra le violenze e le minacce che configurano il lavoro come forzato, rientrano non solo la reclusione, gli abusi fisici e sessuali, ma anche il rifiuto di pagare il salario o il trattenimento dello stesso, l’impossibilità di liberarsi dal debito contratto nei confronti del padrone, il sequestro del passaporto e dei documenti di identità, e soprattutto la minaccia di denuncia alle autorità. Le condizioni di lavoro imposte ai migranti irregolari sfruttando la loro paura stanno configurando delle vere e proprie forme «neo-schiavistiche» di inclusione sociale. Con questa definizione intendo connotare il dilagare di politiche statali e di retoriche pubbliche miranti a mantenere il lavoratore migrante in una condizione di marginalità e vulnerabilità sul piano del godimento effettivo dei diritti fondamentali in modo da facilitare il suo assoggettamento a condizioni di lavoro che chiunque di noi riterrebbe inumane. Si sta configurando un sistema imperniato sulla minimizzazione dei costi, dei rischi e degli obblighi non solo dei singoli datori di lavoro, ma anche della società ospitante nel suo complesso che trae vantaggio da questo sfruttamento. La peculiarità del «neo-schiavismo» dei migranti rispetto allo schiavismo classico sta, infatti, oltre che nelle modalità di instaurazione, nel fatto che esso si è liberato da quello che già Marx aveva considerato un suo orpello anti-economico: la necessità di mantenere lo schiavo, necessità di cui si è liberato non solo il «Padrone» ma anche il «Sistema-paese». Alle forme di lavoro di tipo schiavistico, si accompagna non solo l’immediata «dismissione» dei lavoratori migranti una volta che non sono più utili, ma anche il loro allontanamento dal territorio nazionale, ben sapendo di poter contare, data la consistenza dei flussi migratori, su un facile reintegro della forza lavoro necessaria. Definisco «neo-schiavistico» il sistema che si sta configurando perché in esso la condizione di subordinazione dei migranti mi sembra dipendere più dal quadro giuridico che non dalle loro condizioni di marginalità e povertà. È questo che differenzia la situazione dei migranti da quella delle plebi che dalla fine del Seicento si urbanizzavano e, mediante quello che Foucault ha definito il «grande internamento» e poi il disciplinamento, venivano lentamente e dolorosamente trasformate in operai. Il sistema «neo-schiavistico» di integrazione sociale si impernia sulla creazione di un impianto giuridico che ostacola l’accesso dei migranti a tutti quei diritti e quegli strumenti sociali che la civiltà giuridica europea ha predisposto nel corso di un secolo e mezzo per impedire che si crei una massa di disoccupati in condizioni miserevoli, che si costituisca cioè un «esercito di riserva» della manodopera capace di innescare un meccanismo di continuo dumping sociale. I meccanismi giuridici creati non configurano, come nello schiavismo classico, una persona proprietaria di un’altra, ma una persona priva di diritti e, di fatto, impossibilitata a esercitare anche quei pochi diritti che le sono formalmente riconosciuti; impossibilitata a muoversi di sua iniziativa, pena la denuncia della sua stessa esistenza sul nostro territorio. Si sta delineando un contesto giuridico in cui il lavoratore, anche se non è di proprietà del «padrone», è, formalmente, titolare di pochissimi diritti e, di fatto, privo di diritti, o meglio dell’effettiva possibilità di utilizzarli, come lo era lo schiavo classico. Il potere del «padrone» si esplica nella possibilità di denunciare il migrante e di causare la sua espulsione nel caso faccia qualcosa che non gli aggrada o, e questa è sempre stata l’altra faccia della schiavitù, nella possibilità di consentire, nella sua magnanimità, la nuova forma di mancipatio che è rappresentata dalla regolarizzazione, vuoi attraverso una sanatoria o attraverso la chiamata fittizia in occasione del «decreto flussi».
(da E. Santoro, La nuova via della schiavitù, in «Iride», XXIII, n. 59, gennaio-aprile 2010, pp. 10-12)*
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