Video integrale
Del tutto nuova, in Francesco, è l’idea per cui la scelta della povertà non derivi primariamente da un’impostazione etica, o da qualche buona volontà umana, ma sia da leggersi nella prospettiva di una radicale conversione del cuore: la metánoia dei vangeli, la teshuvà del Primo Testamento. Ecco il senso del simbolico matrimonio con l’altissima povertà di cui dirà Dante parlando di lui nella Commedia, da intendersi in chiave di sequela Christi, cioè di colui che ha deciso di sottomettersi fino in fondo alla volontà del Padre facendosi in prima persona povero con i poveri. È Francesco stesso che, ancora nel Testamento, un documento per certi versi addirittura sconcertante, rivela come ci sia stato l’incontro fisico con i lebbrosi all’origine della sua conversione: dunque né i sogni o le preghiere, e neppure l’eventuale imitazione di un gigante della mistica, bensì l’incrociare per viam, sulla strada, dei poveri cristi afflitti da un’inesorabile malattia che la Torah considerava un castigo di Dio per determinati peccati (fino a dedicare alle norme di purificazione da essa – in ebraico zara’at – ben due capitoli del libro del Levitico, il 13 e il 14). Per questo il lebbroso, sin dai tempi del Primo Testamento, non solo non era destinato a destare particolare compassione, ma doveva vivere lontano dai villaggi, in quanto emarginato da ogni pratica sociale: una sorta di ripugnante cadavere vivente che non poteva né avvicinare, né essere avvicinato. Certo, sarà Gesù a rompere radicalmente un simile tabù, toccando il malato di lebbra convinto di poter essere da lui guarito (Mc 1,40-45). Il Povero d’Assisi farà lo stesso, precisando tuttavia come il suo generoso comportamento nei confronti di quei miserabili non fosse stato il frutto logico della sua conversione, ma che tutto si era svolto al contrario: «Esso aveva preceduto la sua scoperta del Vangelo e ne era stato la causa» (André Vauchez).
Il percorso descritto nel Testamento, si badi, non segue le canoniche regole dell’agiografia, a partire dalle quali sarebbe stato più opportuno porre in primo piano il cambiamento spirituale, e solo dopo farlo seguire dal gesto di carità nei confronti del prossimo (come fa, correttamente nella sua ottica di esaltazione del fondatore, il suo primo biografo, il frate Tommaso da Celano, situando l’episodio del bacio al lebbroso in coda al processo di conversione). E se nei codici religiosi della sua epoca il valore evangelico della povertà era in genere tradotto istituzionalmente nel modello dei monaci benedettini, egli decide consapevolmente di rifiutarlo per abbracciare direttamente l’exemplum gesuano: non si tratta pertanto di porsi accanto ai poveri e ai lebbrosi, e neppure di interpretare religiosamente l’esperienza della povertà, ma di far propria la miseranda esistenza quotidiana del povero, dello sradicato e del lebbroso nelle modalità da lui conosciute nel quadro della comunità civile affluente della sua Assisi. Fino a consentirgli di intuire che «è solo nella povertà che il rapporto con le cose, con il creato, con gli uomini diventa puro e vero, perché il povero scopre e manifesta la radice divina e comune di tutto e di tutti, non porta sulle cose l’occhio rapace di chi vuole impadronirsene e farle proprie sottraendole agli altri» (C. Gennaro). Inoltre, in questo modo, al contrario di quanto accadde agli svariati movimenti evangelico-pauperistici della sua epoca, egli si mostrerà in grado di tenere assieme saldamente la povertà con l’umiltà e la fraternità.
(da B. Salvarani, Introduzione, in Francesco d’Assisi, Guardate l’umiltà di Dio. Tutti gli scritti di Francesco d’Assisi, Milano, Garzanti, 2014, pp. 6-8)*
(*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.