a cura di Claudio Longhi
testi scelti da Carlo Altini
immagini a cura di Riccardo Frati
regista assistente Giacomo Pedini
con Diana Manea, Simone Tangolo
La lettura delle ore 17.30 e la replica delle ore 21 si tengono presso il Teatro della Fondazione San Carlo (via San Carlo 5, Modena).
Ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria, effettuabile dal 13 al 17 aprile. Prenotazioni solo telefoniche, dalle ore 9 alle ore 19, allo 059.421240 o allo 059.421208.
Un uomo vicino a lui che fino ad allora aveva lavorato febbrilmente di fucile smise all’improvviso e scappò via ululando. Un giovanotto il cui volto ostentava un coraggio esaltato, la maestà di chi è disposto a offrire la vita, crollò all’improvviso nell’abiezione. Sbiancò come uno che si è spinto fino all’orlo d’una scogliera a mezzanotte e se ne accorge all’improvviso. Fu una rivelazione. Anche lui buttò via il fucile e scappò. La sua faccia non esprimeva affatto vergogna. Correva come un coniglio.
Altri cominciarono a squagliarsela attraverso il fumo. A quei movimenti il ragazzo si volse, scosso dal suo torpore, come se il reggimento lo stesse lasciando indietro. Vide quelle poche figure che scomparivano di corsa. Allora cacciò un grido di spavento e girò su se stesso. Per un attimo, in quel frastuono, fu come il pollo del proverbio. Non sapeva da che parte fosse la salvezza. La distruzione lo minacciava da ogni lato. Subito dopo cominciò a filare verso le retrovie a grandi balzi. Aveva perso il fucile e il berretto. La giubba sbottonata si gonfiava nel vento. Il coperchio della giberna ballava freneticamente, e la borraccia, attaccata a una correggia sottile, si agitava dietro di lui. Sul suo viso c’era tutto l’orrore della cose che aveva immaginato. Il tenente gli corse incontro sbraitando. Il ragazzo vide la sua faccia rossa per l’ira, e lo vide menare un colpo con la sciabola. Dall’incidente nacque in lui un solo pensiero, e cioè il tenente era una strana creatura, se si preoccupava per cose simili in un momento come quello. Corse alla cieca. Due o tre volte inciampò e cadde. Una volta batté la spalla contro un tronco così forte che andò via lungo disteso.
Da quando aveva voltato la schiena alla battaglia le sue paure si erano straordinariamente magnificate. La morte che minacciava di trafiggerlo fra le scapole era molto più spaventosa di quella che poteva colpirlo in mezzo agli occhi. Quando ci ripensò, più tardi, concluse che è meglio assistere al peggio anziché essere soltanto a portata d’udito. I rumori della battaglia erano come pietre; gli sembrava che potessero schiacciarlo. Continuando a correre raggiunse gli altri. Intravedeva uomini a destra e sinistra, e sentiva passi dietro di sé. Pensò che tutto il reggimento fosse in fuga, inseguito da quei rumori sinistri. Mentre fuggiva il suono di quei passi che lo seguivano gli procuravano l’unico, magro conforto. Sapeva vagamente che la morte doveva cominciare a scegliere fra gli uomini più vicini; i primi bocconi dei draghi sarebbero stati quelli che correvano dietro di lui. Così mostrava tutto lo zelo di un corridore impazzito nello sforzo di non lasciarsi superare. Aveva intrapreso una gara.
In testa a tutti uscì in un piccolo campo e si ritrovò in una zona battuta dalle granate. Volevano sopra la sua testa con lunghe grida selvagge. Ascoltandole immaginò che ridessero di lui con file di denti crudeli. Una volta una granata atterrò davanti a lui e il lampo livido dell’esplosione gli sbarrò la strada che aveva scelto. Per un attimo giacque a terra, poi saltò in piedi e galoppò via attraverso i cespugli. Provò un brivido di stupore quando giunse in vista di una batteria in azione. Gli uomini laggiù sembravano comportarsi in modo normale, del tutto ignari della distruzione incombente. […]
Il volto di un giovane cavaliere, che faceva saltare il suo cavallo impazzito con la stessa tranquillità che se si fosse trovato nel recinto d’una fattoria, gli rimase profondamente impresso. Sapeva di aver guardato un uomo che presto sarebbe morto. Provò pietà anche per i cannoni, sei buoni camerati, che se ne stavano coraggiosamente in fila. Vide una brigata che veniva in soccorso delle compagne in difficoltà. Si arrampicò su un’altura e la guardò avanzare in bell’ordine, mantenendo la formazione su un terreno difficile. Il blu della linea era incrostato d’acciaio, e le bandiere brillanti svettavano. Gli ufficiali gridavano comandi. Anche questa vista lo riempì di meraviglia. La brigata si affrettava allegramente per farsi ingoiare dalle fauci infernali del dio della guerra. Che razza di uomini erano mai quelli? Dovevano essere d’una specie meravigliosa! O forse… non capivano. Gli imbecilli!
(da S. Crane, Il segno rosso del coraggio, trad. it. di A. Barbero, Milano, Frassinelli, 1998, pp. 53-55)