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Ripensare il nesso tra teologia e politica, interrogarsi sul nocciolo teologico del potere e sulla trascendenza insita in ogni sistema politico, non significa affatto rimettere in discussione la laicità del politico, la sua mondanità, e proporre ambigue sacralizzazioni e mitizzazioni. Così come la riproposizione del problema della legittimità e del rapporto tra politica e verità non significa affatto legare in modo diretto l’ordinamento politico alla verità: ciò significherebbe riproporre fanatismi e intolleranze che hanno già segnato profondamente la storia europea. Se lo schema della teologia politica fosse necessariamente quello del monoteismo politico “Un Dio – un popolo” integralisticamente inteso, l’unica alternativa sarebbe quella o della radicale separazione del politico da ogni teologia o quella di un radicale politeismo che solo potrebbe salvare il pluralismo. Ma entrambe queste soluzioni sono soluzioni teologico-politiche che ripropongono con il loro stesso essere il problema della teologia politica.
La laicità della politica non è garantita dalla sua separazione dal teologico o dalla negazione di questo. Questa negazione può portare con sé un’assolutizzazione del politico che favorisce il nascere di miti totalizzanti e può indurre a nuove divinizzazioni del politico. La laicità può vivere solo se è mantenuta la differenza con il teologico, ma perché questa differenza sia mantenuta è essenziale che sia mantenuto il rapporto, dialettico, con la trascendenza: solo l’apertura alla trascendenza garantisce l’equilibrio del politico nella sua mondanità. Quanto poi al pluralismo non è necessario ricorrere al politeismo per garantirlo, giacché questo inclina piuttosto a un relativismo assoluto e nel conflitto politico a un conflitto tra dèi diversi. Se il monoteismo rigido non è compatibile con il pluralismo, lo è invece la dottrina trinitaria che accoglie l’alterità nell’unità del divino e non condanna l’altro e il diverso alla negazione.
In questa prospettiva appare feconda l’indicazione schmittiana del tema dell’analogia. L’analogia è appunto il rapporto di identità-differenza, di somiglianza-dissomiglianza tra due realtà e questo rapporto, così inteso, può essere applicato alla relazione tra teologia e politica. L’analogia può rappresentare una strada alternativa rispetto alle due possibilità dell’identità e della separazione. Non si tratta più dell’analogia ontologica garantita da una continuità gerarchica tra realtà temporale e sovratemporale. Non vi è continuità tra i due ambiti, ma vi è un salto, un abisso, una frattura. Tra ideale e reale vi è conflitto dialettico e questo conflitto non può essere tolto. Nel mantenimento di questo dualismo l’analogia può però costituire un ponte che rimanda il politico alla sua origine, un’origine non colta e conosciuta con la chiarezza della ragione, ma solo intravista attraverso il medio della rappresentazione. Ma proprio nella rappresentazione offerta dal simbolo più che dalla potenza discorsiva dell’intelletto, può rendersi presente, anche se in forma storicamente relativa, ciò che è assente. Ed è la presenza di quest’assenza il nocciolo teologico del politico, ciò che fonda la coscienza della radice del politico e ciò a cui il politico deve rendere conto. Di fronte a quest’assenza, nella solitudine del politico, si gioca la sua responsabilità.
(da M. Nicoletti, Trascendenza e potere, Brescia, Morcelliana, 1990, pp. 636-637)*
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